
Raffaella Valsecchi, Mother Tongue, 2015. Carta e legno, 40 elementi. Installazione, dimensioni variabili
Mari&có è un luogo milanese bellissimo: architettura industriale scabra fatta di materiali essenziali, spazio polifunzionale dove si cucina, si mangia, si espone arte, sia pure all’insegna della reticenza (non è un luogo “aperto”: ai suoi proprietari non interessano le folle).
Dall’11 giugno al 30 ottobre di quest’anno presso Mari&có espongono nove artisti, in una mostra denominata “Cibario banco planetario”, e in concomitanza con l’Expo si apre il progetto “Edule e provvisorio”, a cura di Marinella Rossi, che di Mari&có è l’ideatrice. Faccio parlare il comunicato stampa, che dà l’idea del rapporto di Rossi con il suo spazio e con il pubblico: “20 ingredienti, 20 posti a tavola, 20 giorni al mese, da giugno a fine ottobre.
Le porte di Mari&có, insieme allo chef Filippo Mariani e a Greta Merciari, si aprono in occasione dell’Expo. Ogni mese una cena diversa a menù unico.
Materie prime scelte con metodica e appassionata ricerca, sapori nuovi con un ricorrente omaggio alla cucina ligure, memoria degli inizi. […]
A fine ottobre le sue porte si chiuderanno nuovamente, per tornare solo a curare eventi riservati, schivi e sussurrati.”
Gli artisti in mostra sono Luigi Belli, Francesco Bocchini, Alfred Drago Rens, Federico Guerri, Chiara Passigli, Guido Scarabottolo, Raffaella Valsecchi, Mattia Vernocchi, Lella Zambrini, ma mrs. cosedalibri ha preferito concentrarsi unicamente sul lavoro di Raffaella Valsecchi, designer e artista di cui avevamo parlato anche qui.
Mother tongue è un’installazione: quaranta telai da ricamo di dimensioni variabili su cui l’artista tende fogli di carta goffrata che riportano parole stampate a secco. Parole in inglese, perché la madre di Raffaella era inglese e questa mostra è un omaggio a sua madre.
E siccome spesso il rapporto con la madre è un rapporto fatto di molti chiari e ancora più scuri, siccome nel rapporto con la madre ci sono, oltre all’amore, anche violenza, ambiguità e molto nero, Valsecchi riporta in questo tumulto familiare (è familiare perché riguarda la famiglia; è familiare perché, se abbiamo un po’ di coraggio per guardare, lo conosciamo tutti) un equilibrio formale, necessario per imprimere ordine.
Chi scrive non concorda con le parole che si leggono sul cartoncino di presentazione della mostra, dove qualcuno ha parlato di “ricerca metodica e istintiva” (il corsivo è mio), di “objets trouvés”: c’è qualche metodo ma non c’è nulla di istintivo, in questa ricerca (niente istinto, siamo inglesi); i telai non sono objets trouvés, bensì oggetti cercati, precisi e imprescindibili nella loro forma e funzione. Sono circolari – il cerchio si chiude e in qualche modo si chiudono pure i conti; sono supporti su cui la carta si tende – e quando la carta è tesa, dalla chiarezza non si scappa: tutto si può vedere e si vede e si può far vedere su quel biancore necessario.
Così Valsecchi su quelle carte tirate scrive, mette in rilievo e scava, bianco su bianco. Permettendosi giochi di parole al limite del licenzioso (niente sesso, siamo inglesi), esponendo il peccato del cristianesimo, facendosi sopraffare dall’amore, individuando il pericolo che può contenere una proposta. Quella parete grigia ricoperta di parole in lingua madre, punteggiata di forme così desuete che non appaiono più neanche come domestiche (chi usa il telaio, ormai, se non qualche borghese signora munita anche di bicicletta con cestino orlato di fiori finti?), è un monito forte.
“Le parole, le parole giuste e vere, possono avere lo stesso potere delle azioni”, cita Raymond Carver da Santa Teresa (Meditazione su una frase di Santa Teresa, in Raymond Carver, Il mestiere di scrivere). Valsecchi ci mette in guardia, comunicandoci che le parole possono anche metterci nei guai.
25 giugno 2015 alle 07:12
Ti leggo ed ho voglia di leggere quelle parole.
Terry Hunter, Jay Adams – We Are One (Louie Vega Main Mix)