cose da libri

dove si esplorano parole e si va a caccia di idee


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quando il correttore non rimaneva umile

header-1-600x300per i correttori di bozze là fuori (esistete ancora?): c’è stato un tempo in cui in editoria questo ruolo ne accorpava molti altri, compreso quello che adesso chiamiamo content writer. qui sotto traduco velocemente un paio di passi da un bell’articolo del “lapham’s quarterly”, un estratto dal venturo inky fingers di anthony grafton.

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leggete anche la storia di copernico, del suo de revolutionibus e della “prefazione clandestina” di andreas osiander. enjoy.

“[…] A volte i correttori fungevano da intermediari esperti tra un autore e il suo editore. Il correttore sembra rappresentare un nuovo tipo sociale: un fenomeno portato nel mondo dalla stampa e figlio della nuova città dei libri creata nata con la stampa. Sembra evidente che la nuova arte abbia creato nuovi compiti. Il tipografo si trovava a confrontarsi con molti rivali sul mercato. Doveva dimostrare che un particolare prodotto era superiore a quelli dei rivali. Un modo per farlo – come gli stampatori decisero presto – fu evidenziare, nel colophon o, più tardi, sul frontespizio, che il testo era stato corretto da uomini sapienti. […]

[…] I correttori erano figure in un panorama che va scomparendo: un panorama in cui gli autori si aspettavano che gli stampatori – o i loro copisti – migliorassero il lavoro consegnato. In quel mondo molti scrittori immaginavano il proprio lavoro come collaborativo piuttosto che individuale. Per secoli i correttori sono stati l’intermediario tra gli scrittori e i lettori. Sono stati i lontani antenati non solo del filologo moderno, ma anche dell’editore moderno, che tanto ha fatto per plasmare il lavoro di scrittori importanti. Molte robuste linee di continuità percorrono la millenaria storia dell’autorialità e dell’editoria. […] un punto è chiaro. Ogni volta che gli autori si arrabbiano con i copyeditor, i professori, i redattori o gli agenti – e ogni volta che i redattori si lamentano quando gli autori non apprezzano il loro lavoro – ripropongono uno scenario profondamente radicato nella tradizione classica. […]”


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fly me to the moon_obsolescenza dei tacchi secondo suzy menkes

adidas-stan-smith-j-s74778-s74778-9da tempo mrs. cosedalibri sostiene la necessità e la bellezza, per le ragazze, delle sneakers al posto degli invalidanti tacchi di qualsiasi altezza. adesso questa opinione è confortata dalle osservazioni della sovrana assoluta della moda, quella suzy menkes international editor di “vogue”. suzy le esprime in theorem[a] – the body, emotion + politics in fashion, di filep motwary, di recente uscita presso skira editore in collaborazione con polimoda. l’editor del volume, per ora solo in inglese, è la vostra anna albano, aka mrs. cosedalibri.

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Filep Motwary: Come si collega la società ai vestiti che si sceglie di indossare? Cerchiamo un significato più profondo nell’abbigliamento?

Suzie Menkes: Non credo che la maggior parte delle persone cerchi un significato profondo. La maggior parte delle donne – e anche degli uomini – vuole abiti che si muovano con il corpo. Abbiamo superato l’epoca in cui le donne camminavano in punta di piedi su tacchi altissimi, o in cui gli uomini si infilavano in enormi gilet per apparire intelligenti. Le persone sono andate oltre.

L’abbigliamento semisportivo per le donne ha cambiato tutto. Ora è perfettamente normale andare in ufficio con pantaloni stretch e scarpe da ginnastica. Nelle metropolitane di qualsiasi città dell’Estremo Oriente, o in America, India, Europa, ovunque la gente indossa scarpe da ginnastica perché sono comode. Le scarpe sportive ti permettono di usare l’energia come ti aggrada, non ti rallentano e sono diventate anche simboli di prestigio. Anche stilisti di haute couture come Karl Lagerfeld di Chanel fanno sfilare le sneakers, che in passato si sarebbero indossate solo sui campi da tennis.

Adesso le scarpe sportive sono decorate e rimandano segnali di ogni tipo. Sono diventate cool e la gente ama indossarle. Direi che è successo negli ultimi sette anni, forse anche meno. In questo caso, tuttavia, non parliamo di un significato più profondo, ma di persone convinte che portare il tipo di scarpe che indossano i rapper o le star dello sport dia loro un’identità.

Quando parliamo di significato più profondo nei vestiti – un esempio potrebbero essere le persone che in passato indossavano abiti neri per segnare una morte nella loro famiglia (dopo la morte del marito la regina Vittoria vestì di nero per il resto della vita) –, non riesco a pensare davvero a nulla di simile nell’oggi, a qualcosa che manda un messaggio a tutti gli altri. Ci sono però senz’altro tipi di abbigliamento che esprimono certe caratteristiche. Prada ne è un esempio: i veri seguaci di Prada puntano a dire: “Come Miuccia Prada, apprezzo il lato artistico del mondo.” Ma pochi cercano questa profondità in quello che indossano. La maggioranza cerca soprattutto il comfort.

filep motwary, theorem[a] – the body, emotion + politics in fashion, skira/polimoda, milano 2018, editing a cura di anna albano

 

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suzy menkes con pharrell williams. courtesy


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grandangolo_la realtà di ezra tra rappresentazione e iconoclastia

“più in generale, dal punto di vista del pensiero ebraico e dell’atteggiamento che l’artista assume di fronte alla sua opera, si può ancora aggiungere che i maestri hanno guardato con riserva la stessa arte, in quanto l’artista con la sua creatività tende a sentirsi e quasi a sostituirsi a dio.”

scialom bahbout, L’arte nella normativa ebraica, la halakhà, in morasha.it, sezione zehùt

sta simbolicamente qui, nella “riserva” ebraica nei confronti dell’arte, una delle ragioni del titolo di grandangolo, bildungsroman di simone somekh che racconta la parabola di crescita di un giovane ebreo nato nei dintorni di boston in una famiglia di strettissima osservanza – con genitori che “non erano nati né cresciuti religiosi”, ortodossi per scelta tardiva, sempre desiderosi di essere accettati da un ambiente che continua a guardarli con qualche sospetto –, dalla quale a un certo punto della adolescenza si sente soffocato. espulso per aver fotografato una compagna di scuola nel bagno, sceglie non senza difficoltà, aiutato da una zia libera pensatrice, di continuare gli studi in una scuola più liberale. la ribellione di ezra kramer si sostanzia di un lavoro sulle immagini, quelle che scatta con l’adorato apparecchio che ha chiesto in regalo per il suo compleanno, producendo iconografia a mano a mano che in lui si produce l’insurrezione nei confronti dell’autorità. e non è un caso che, come vedremo più avanti, uno degli atti che sanciscono il suo percorso verso la maturità abbia il sapore dell’iconoclastia.

a una domanda sulle donne della sua comunità posta da uno dei nuovi compagni, in piena, dolente riflessione sul suo humus di provenienza, risponde “‘perché, gli uomini haredi possono prendere delle decisioni? […] mi pare che anche loro sappiano fin da piccoli che devono sposarsi e fare figli, e che quella sarà la loro vita’. le donne erano tanto prigioniere del mio mondo quanto lo erano gli uomini.”

e ancora, mentre si dibatte nella contraddizione tra il desiderio di andare e il senso di colpa e di straniamento che avverte a questa idea, “d’un tratto mi resi conto di quanto dovevo sembrare strano visto da fuori: criticavo, ma restavo sempre aggrappato a ciò che mi era stato insegnato da piccolo. pensai che non avrei mai avuto il coraggio di lasciare la mia comunità: l’appartenenza a quel mondo mi scorreva nelle vene. scappare equivaleva a tagliarsele, una ad una, fino a morire dissanguato.”

grandangolo affronta una serie di temi assai dibattuti in ambito ebraico, quali l’esistenza di interpretazioni più o meno rigide dell’ortodossia, la gestione del libero arbitrio, il valore dell’esperienza, l’omosessualità. alla fine ezra vede la propria ribellione stemperarsi di fronte a una normalità professionale fatta anche di compromessi, e decide di andare ad affogare la propria delusione a tel aviv: dove crede di vedere carmi – approdato dai kramer come conseguenza dell’affidamento a diverse famiglie dei numerosi figli della famiglia taub alla morte della madre –, di cui aveva perso le tracce dopo essersi trasferito a new york e per la cui sorte aveva temuto. è un attimo, ma ezra è convinto di averlo visto per davvero; e ricostruendo sguardi e segni cui non aveva dato peso durante il suo breve ritorno a boston per il funerale di sua zia, si rende conto che non può essere stato che il rabbino hirsch, con una decisione ipocrita quanto provvidenziale, a finanziare la fuga dell’amico scopertosi omosessuale da una comunità che gli sarebbe stata ostile per sempre.

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l’attivista transgender abby stein fotografata da benyamin reich, che condivide con il protagonista di grandangolo la passione per la fotografia. anche la sua è una storia interessante

fin qui tutto bene, epperò: un autore di ventun anni (tanti ne aveva somekh all’epoca della stesura del libro) sottopone alla redazione di giuntina un manoscritto tanto interessante quanto tecnicamente acerbo; nel quale, in preda a una legittima ansia di mettere sul piatto istanze e questioni, lo stesso autore spesso fa parlare i suoi personaggi con registri un poco inadeguati. un esempio per tutti, la scena di sensualità ancora innocente in cui il poco più che bambino carmi dialoga con ezra in maniera un po’ troppo forbita, mostrando una capacità di approfondimento forse eccessiva per un ragazzo che non si è mai allontanato dal proprio ambiente: “carmi si distese sul mio letto, accanto a me, e mi strinse forte la spalla. ‘la tua opinione per me conta. la verità però è che sono terrorizzati. hanno così tanta paura di tradire la fede che preferiscono estremizzare ogni azione, devono essere certi di metterla in pratica nel modo più corretto’”. fa sorridere, poi, il commento del newyorkese travon quando vede la manipolazione creativa su alcune immagini di steven meisel fatta da ezra su una rivista (l’atto di iconoclastia cui si faceva cenno più sopra): “‘wow’, esclamò, ‘tanta roba’”, dove quel “tanta roba” sembra una maldestra traduzione dall’inglese in italiano di una locuzione giovanile. così come quando il coinquilino coreano di ezra dice “‘scusate, potete fare silenzio? sono in mezzo a una videoconferenza con seul’”: quella trasposizione senza mediazione dall’inglese “i’m in the middle of” dà conto dell’ambiente internazionale in cui si muove somekh, che probabilmente condiziona il suo italiano, ma anche dell’intervento insufficiente dell’editor sul manoscritto. se c’è un elemento negativo di questo libro, è la poca cura editoriale: si percepisce che il manoscritto è rimasto tale e quale a come è stato consegnato, con tutte le sue ingenuità. e invece i manoscritti dei giovani autori hanno bisogno di attenzione.

9788880577058_0_0_0_75simone somekh, grandangolo, giuntina, firenze 2017, 174 pagine, 15 euro


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Realista, quasi punk_Amedeo Renzini compie cent’anni e va in mostra a Venezia

“Queste storie dipinte sono episodi veri, sono fatti di cronaca e Storia: una storia di operai e contadini, di uomini che non misurano gesti e fatica.

Io ho guardato e capito questa gente e so che essi sono gli uomini migliori, gli attori veri, di una nuova realtà.

Ho dipinto momenti della grande lotta dei contadini poveri e giusti per la conquista della loro terra e di operai che lavorano e difendono le fabbriche. Storie che accadono vicino e che gridano dentro.

Non voglio certo giudicarmi, ma voglio dire che anche io ho vinto una piccola battaglia: contro la paura di fare della cronaca, di essere di ‘cattivo gusto’, di dar fastidio; ho dipinto con libertà e serietà e dedico questo lavoro ai nostri lavoratori che si battono con rivoluzionaria vitalità e profonda giustizia”.

Amedeo Renzini, catalogo della mostra (Venezia, Opera Bevilacqua La Masa,

17-30 luglio 1950), Venezia 1950

amedeo renzini, c 1985

Al centro, Amedeo Renzini, circa 1985

È la dichiarazione di intenti di Amedeo Renzini, pittore nato a Venezia esattamente un secolo fa, l’11 ottobre 1917. Alla sua opera è dedicata una mostra che inaugurerà nella sua città natale il prossimo 15 dicembre, da un progetto delle figlie Anna e Ombra.

Renzini comincia a esporre nel 1949, con un dipinto dedicato a Maria Margotti, mondina uccisa nello stesso anno nel corso di una manifestazione per i diritti dei lavoratori. La cifra iniziale della sua arte è il realismo, e la sua ricerca, come scrive Giovanni Bianchi nel catalogo della ventura esposizione edito da La Toletta di Venezia, “si fonde con l’impegno politico; l’artista è vicino ad Armando Pizzinato e agli altri neorealisti veneziani, come Giovanni Pontini, Ezio Rizzetto, Bepi Longo, Albino Lucatello, Valeria D’Arbela, con i quali espone a Venezia nel 1953 (febbraio-marzo) alla Galleria al Ponte.”

Storia americana, 1976, tecnica mista, 18 x 23 cm

Storia americana, 1976, tecnica mista, 18 x 23 cm

Negli anni una prepotente fantasia e uno spirito indomito guidano Renzini verso esiti che deviano dallo spirito degli esordi. La sua sostanziale inclassificabilità lo tiene lontano dalla critica e dai circuiti ufficiali, cosa di cui l’artista non si duole, come ci dice lui stesso: “Non so fare i salti mortali, neanche a manina con mercanti e critici (il gatto e la volpe di tante storie di pinocchi pittori) e mi succede che da tempo non mi interessano le mostre ufficiali, i concorsi, i grandi premi, o piccoli. Dipingo, non faccio collezione di medaglie.”

Renzini continua il suo viaggio artistico viaggiando, passeggiando, annotando storie dipinte e scritte; il segno incide più profondamente e il colore esplode in opere di rutilante erotismo.

Albero della vita, dettaglio, 1985, grafite e acquarello su carta, 60 x 18 cm

Albero della vita, 1985, particolare, grafite e acquarello su carta, 60 x 18 cm

E a volte la libertà si trasforma in splendido sberleffo, quasi un’anticipazione del punk, un invito ai borghesi:

amedeo renzini_phanku

  • Amedeo Renzini – Identikit
  • Fondazione Bevilacqua La Masa
  • Palazzetto Tito, Venezia
  • 15 dicembre 2017
  • 21 gennaio 2018
  •  
  • Un progetto di Anna e Ombra Renzini
  • Catalogo della mostra
  • Progetto grafico e impaginazione
  • Matteo Torcinovich
  • Sebastiano Girardi
  • Matteo Rosso
  • Editing
  • Anna Albano


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allen e john

oggi ricorre il compleanno di allen ginsberg. tra le altre iniziative per i festeggiamenti, che trovate sul pregevole the allen ginsberg project, una festa di genetliaco vera e propria – howl. a ginsberg birthday party – al fox theatre di boulder, colorado.

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mi piace ricordarlo anche perché alla biennale di venezia sono attualmente in esposizione le opere di john latham, alcune delle quali si distinguono per un utilizzo massiccio di libri:

Nel 1958 è il libro a diventare l’elemento centrale delle sue opere. Se da un lato è segnato dagli autodafé nazisti del 1930, Latham è animato, oltre che da un atteggiamento distruttivo, dalla volontà di saturarsi di materia grigia”. Dopo una prima performance durante la quale dà fuoco all’Encyclopaedia Britannica per poi raccoglierne le ceneri, si sforza di masticare per intero Art and Culture, il saggio di Clement Greenberg punto di riferimento fondamentale del modernismo americano, che poi filtra e distilla in provette. L’utilizzo quasi ossessivo dei libri assume una rilevanza ancora maggiore con la realizzazione dei primi Skoobs, bassorilievi costituiti da libri e proiezioni di gesso nebulizzati di vernice (Untitled Relief Painting).

testo dal catalogo della biennale

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catalogo della mostra, catalogo dei padiglioni e guida breve della biennale arte 2017. editing delle versioni italiana e inglese a cura della vostra anna albano

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qui e oltre, opere di john latham fotografate alla biennale di venezia

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particolare dell’opera qui sopra

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l’11 giugno 1965 latham avrebbe dovuto prendere parte a una performance visiva organizzata in occasione della international poetry incarnation, alla royal albert hall di londra, che prevedeva la recitazione di opere dei poeti beat. per l’occasione l’artista si immerse in un bagno di vernice blu; svenne in conseguenza del freddo, fu portato sul palcoscenico privo di sensi e la performance non ebbe luogo.

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ginsberg però si esibì ampiamente, come si vede nel video qui sotto. a voi, e ben ritrovati.

 


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Viaggiare attorno alla propria stanza lavorando in editoria (con lode finale alla condizione di libero professionista)

Dove sono stata? Accade spesso, se si lavora sui libri, di doversi per così dire assentare dalle cose sociali. Capita, in alcuni periodi, di essere talmente assorbiti da non poter svolgere compiti anche molto piacevoli come quello di scrivere sul proprio blog. Quando la grande ondata si va ritirando, tuttavia, può essere molto piacevole fare un bilancio del proprio percorso, diciamo, dell’ultimo mese.

Sono stata in Belgio

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Dove ho incontrato committenti e colleghi gentili e rispettosi del lavoro altrui, rilassati, informali ma competentissimi. Persone che salutano, ringraziano, comunicano e non ritengono scandaloso parlare di soldi.

Sono stata in Inghilterra

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Dove ho incontrato committenti e colleghi gentili e rispettosi del lavoro altrui, contraddistinti da quella stralunatezza unica, tipica di un paese che conferisce onorificenze a divi pop. E in effetti, se un progetto riguardava un luogo piuttosto paludato della cultura, il secondo è pervaso da un’essenza ancora più british: in un luogo superpaludato della cultura, a Londra, in maggio si terrà un evento psichedelico che richiede un libro psichedelico. Protagonisti: un leggendario prisma e un gruppo di autori assai bizzarri. I creativissimi grafici hanno concepito un volume in cui prisma e triangolo ricorrono nel font e in altri luoghi strategici dell’impaginato: una fonte di gioia e straordinario entusiasmo per chi scrive, che quando ha visto l’impaginato in anteprima ha quasi pianto.

Sono stata negli Stati Uniti

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Dove necessitava di traduzione il materiale pubblicitario di un gioielliere simbolo di New York, che per il 2017 ha creato una collezione (bellissima) ispirata proprio a quella città.

Sono rimasta in Italia

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A Venezia, dove fervono i lavori per una grande manifestazione in cui trionfa l’arte contemporanea.

A Roma, dove il simbolo ebraico per eccellenza sarà l’oggetto di una mostra, in maggio.

A Milano, dove si è aperta alla Triennale la mostra dedicata alla collezione di arte italiana tra le due guerre di Giuseppe Iannaccone, cui è stato dedicato un monumentale catalogo in doppia edizione italiana e inglese, con testi di autori varii curati in entrambe le lingue dalla vostra e pubblicato da Skira editore. La grafica è stata pensata da Mousse, con copertina in tela.

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Lode finale alla condizione di libero professionista

Essere editor e traduttori è una condizione che a volte può apparire intellettualmente stancante, soprattutto nei periodi più pieni: ma la sensazione di trovarsi costantemente sulla soglia di altri mondi, di dover affrontare ogni volta questioni diverse, che richiedono la presenza del patrimonio professionale che si è costruito e un grande slancio verso le cose che stanno arrivando (perché non si può perdere nulla) è incomparabile. Nulla, credo, si può paragonare all’entusiasmo che ti assale quando sul piatto c’è un progetto nuovo, una sfida diversa, una richiesta insolita; nulla è più istruttivo e formativo, nel campo dei rapporti umani, dell’avere a che fare con persone diverse, del doversi psicologicamente confrontare con tante mentalità. Nulla, soprattutto, è più eccitante della libera professione: quell’idea di te stesso come persona eternamente in crescita.

 


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editori pezzenti vs. editori pop

a me la newton compton mi ha sempre fatto impazzire per il suo catalogo sterminato fatto di cose diverse, molte molto buone, e di tanti libri-guida, come quello che ho comprato oggi su milano.

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perché non si capisce come faccia a mantenere prezzi strepitosi (forse non ha collaboratori e fanno tutto raffaello & famiglia, forse i collaboratori sono pagati una miseria o non lo sono affatto; forse la maggior parte del lavoro, come spesso avviene – per i vivi – è demandato all’autore), ciò che non riesce a case editrici che godono di maggior credito presso certi: la sellerio, con il suo catalogo infinito di refusi (datato, ma ancora memorabile, lo scempio di un bel volume di daria galateria, e un altro su un libro del bravo giuseppe scaraffia; si veda anche qui), o l’attuale einaudi (in particolare stile libero*). eppure queste case editrici “piccole ma di qualità”, vedi per l’appunto sellerio, o voland, o la defunta isbn – queste ultime due non pagatrici conclamate: si veda qui e qui –, sono popolari presso i devoti del libro ben curato, altro che la monnezza mainstream di mondadori o rizzoli. eppure, signori, rizzoli e mondadori i collaboratori ce li hanno e li pagano, perlopiù puntualmente. e mentre so per certo (fonte: traduttori ingaggiati amici miei) che feltrinelli paga 12 euro a cartella per la ritraduzione di un classico della letteratura inglese, so altrettanto per certo che editori dal cuore meno rosso e tradizionalmente meno interessati alla sorte del popolo dei lavoratori pagano i traduttori dai 15 euro in su, con punte di 26 euro (fonte: chi scrive). e so che ho dovuto chiedere non so quante volte, fino alla minaccia, i miei diritti d’autore – spiccioli – a un piccolo editore talmente interessato alle sorti del mondo da distribuire le produzioni eque e solidali di eloísa cartonera, per il bene dei compagni argentini (era un po’ meno interessato alle mie, di sorti).

e so per certo, come tutti coloro i quali lavorano in editoria, che questi pitocchi malpaganti (quelli in malafede, beninteso: parlo solo di quelli) si nascondono spesso dietro la lagna “siamo piccoli, abbiamo molte spese, vendiamo poco, alla feltrinelli fanno le pigne di fabio volo vicino alle casse, non possiamo pagare i collaboratori ma siamo gli alfieri della ricerca e della qualità”.

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giacomo ceruti detto il pitocchetto, il pitocco filosofo

risultato: libri spesso mal curati e pieni di refusi al costo triplo di quelli di newton compton. eppure è proprio da newton compton che potrebbero partire, ad esempio, i genitori desiderosi di allestire in economia una bibliotechina domestica di classici per i loro figli: con questi prezzi le scuse del genere “sì, però i libri costano troppo” sarebbero impossibili.

tornando a noi, triplo urrà per l’editore romano no frills, low cost, spesso veramente utile.

*li metto nel calderone dei refusari, ma per einaudi, che non è un piccolo editore, il discorso è ovviamente diverso e simile a quello generale relativo a molti editori: deprezzamento economico dei professionisti dell’editoria; tendenza a concentrare su una figura singola almeno tre funzioni – lettura, correzione di bozze, revisione; sciatterie invalse per motivi diversi, formazione insufficiente dei nuovi. il tutto, nel caso dell’einaudi, brucia ancora di più se si pensa all’einaudi dei tempi d’oro.