cose da libri

dove si esplorano parole e si va a caccia di idee


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la cina è più vicina_in viaggio con qianlong

“L’imperatore Qianlong della dinastia Qing compì sei viaggi di ispezione nelle regioni meridionali, rispettivamente nel 1751 (sedicesimo anno del suo regno), 1757 (ventiduesimo anno), 1762 (ventisettesimo anno), 1765 (trentesimo anno), 1780 (quarantesimo anno) e 1784 (quarantanovesimo anno). Durante questo periodo, Qianlong commissionò al pittore di corte Xu Yang la realizzazione di un enorme rotolo disteso di contenuto storico che desse conto del primo viaggio al sud, nelle province di Jiangsu e Zhejiang. Il dipinto, intitolato Il viaggio dell’imperatore Qianlong nelle terre meridionali, doveva riprendere i temi principali da dodici poesie composte dall’imperatore durante il primo viaggio. […]

La pittura classica cinese unisce le caratteristiche artistiche della poesia, della calligrafia, della pittura e dei sigilli. Gli esperti promuovevano la ‘pittura nella poesia’ e la ‘poesia nella pittura’: l’espressione poetica nei dipinti e il pittoresco nella poesia. In questo modo combinavano gli aspetti più interessanti della pittura con il fascino implicito della rima e del suono della poesia.

Il Viaggio dell’imperatore Qianlong nelle terre meridionali utilizza come temi dodici poesie dell’imperatore, a guisa di argomenti per un saggio: il dipinto doveva aderire all’idea dell’imperatore come sovrano supremo, con Xu Yang come ministro; doveva trasmettere l’emozione della poesia come dipinto, pur rimanendo in linea con le preferenze estetiche dell’imperatore; e cercava di sottolineare le idee centrali implicite nella poesia di Qianlong, di recepire gli scopi politici del suo viaggio nel sud e di esporre le sue strategie di governo, plasmando così l’immagine di Qianlong come sovrano divino e re saggio.”

ho cominciato a lavorare alla traduzione di questo libro per conto di Rizzoli a febbraio scorso. un testo denso di informazioni da verificare, di diverse espressioni da rendere palatabili per il lettore italiano, di ricerche da compiere. Ho seguito Qianlong, l’imperatore poeta e artista, partendo da Pechino, attraversando il Fiume Giallo e ritornando al punto di partenza, fra templi, case da tè e placidi laghi. Ho visitato botteghe in cui si vendevano pregiata carta di Xuan (xuanzhi), oggetti di cartoleria (jian), modelli per calligrafia (tie), damasco di seta (ling), seta greggia (juan) e carta da ventaglio (shanzhi). E sono tornata dal mio viaggio più sapiente.

“China has a long tradition of paintings [depicting] the everyday life and social customs of their respective periods. Zhang Zeduan’s ‘Along the River During the Qingming Festival’, for example, shows marketplace life in Bianliang (Kaifeng) during the Northern Song period. This type of painting provides historians with visual information extremely valuable for the study of a period’s social life and economic development. The ‘Qianlong Emperor’s Southern Inspection Tour’, by the Qing dynasty painter Xu Yang, is a work of this type.”

I started working on the translation of this book on behalf of Rizzoli last February. A text full of information to verify, different expressions to make palatable for the Italian reader, research to be done. I followed Qianlong, the emperor poet and artist, starting from Beijing, crossing the Yellow River and returning to the starting point, among temples, tea houses and placid lakes. I visited stores selling Xuan paper (xuanzhi), stationery (jian), model calligraphy (tie), silk damask (ling), plain weave silk (juan) and fan paper (shanzhi). And I came back wiser from my trip.


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nerino, o caro

vi ricordate di nerino lantignotti? mrs cosedalibri ne aveva parlato qui, fantasticando sulla sua identità. nerino, nella mente di chi scrive, aveva frequentato tutti i libri. nerino aveva e ha un nome che richiama cose buone.

stamattina, appena sollevata la tapparella, ho rivisto la macchina di nerino sul marciapiede di fronte. nerino ha cambiato la grafica del suo biglietto da visita su ruote. da scritta rossa in campo bianco è divenuta una scritta bianca su una fascia blu.

non avevo notizie di nerino dal 2017, l’anno in cui lo incontrai per la prima volta. mi ha colta una felicità subitanea, ho aperto la finestra e ho guardato il veicolo a lungo. nerino, lui, non è comparso. ma io so che è vivo, e che tra qualche anno potrò scrivere un terzo post su di lui.


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curiosità_l’impronunciabile

dopo i simboli che avevano sancito l’incomprensibile e l’illeggibile, ecco che arriva l’impronunciabile. buongiorno a tutt*, pretendono di scrivere. dopo l’asterisco, segno grafico che in genere rimanda a qualcosa (ma qui rimanda a femmine, maschi, persone dall’identità fluida, dunque a una qualche vaghezza), ecco lo schwa “ə” (scevà s. m. [dall’ebr. shĕwā, der. di shawniente”]).

courtesy

“buongiorno a tutt ə”, perciò: con un singulto finale, con una sensazione di oppressione in gola, con una frustrante consapevolezza di incompiuto.

lo schwa è (anche) appannaggio della lingua dei miei avi, il tarantino: ma non c’è repressione in quegli schwa dialettali. c’è una franca dichiarazione di disappunto, o un esplicito invio a quel paese, o una delusione primitiva di bambino.

lo schwa sostituto del “maschile dilagante” è una brutta pezza, una mano sulla bocca, un’emissione soffocata. non ha nulla di quella felicità indotta dall’agio. secondo il professor pietro maturi dell’università degli studi di napoli federico II coloro che attaccano “[…] [l’asterisco egualitario] dovrebbero proporre soluzioni alternative che vadano nella stessa direzione egualitaria.” io non ho soluzioni alternative, ma lo schwa mi fa ammalare, professore.

eppure lo schwa, un’ipotesi introdotta dalla linguista vera gheno, ha i suoi sostenitori. ad esempio, l’editore toscano effequ, nel cui catalogo gheno figura come autrice, si proclama campione della proposta nella persona di silvia costantino, che in un’intervista rilasciata al “giornale della libreria” così dichiara: “Quando Vera Gheno in Femminili singolari ha proposto l’utilizzo dello schwa (ə) per marcare le forme non binarie, Francesco Quatraro e io abbiamo deciso di comune accordo di modificare le [nostre] norme editoriali, per avvicinarci alla nostra idea di mondo: un posto accessibile, colorato, inclusivo”. così l’editore produce immantinente una borsa in tessuto, uno di quei tristi oggetti su cui spesso sono stampate frasi del genere “io leggo”, “io amo i libri” e altre amenità minoritarie, di solito indossate da individui ambosessi (forse anche di altri sessi) con i capelli unti, o che non vedono un parrucchiere da mesi, o da oscuri redattori editoriali che le usano come portabozze. e di questa borsa effequ fa il veicolo dello schwa.

ecco, effequ aderisce allo schwa, a questa chiave per un mondo accessibile, colorato, inclusivo. nella produzione di questo ineffabile schwa-editore (se è interamente presente sul loro sito), nella collana “rondini” gli autori maschi sono 9 e le femmine 3 (sì, è vero, c’è il collettaneo future, in cui i contributi sono tutti di femmine, ma non vale); nella collana “saggi pop” 7 maschi e 5 femmine; nella collana “illustri” 4 maschi e 2 femmine; nella collana “ricettacoli” una femmina, che in ricette di confine ci presenta “il cibo narrato dalla palestina occupata”, quindi se ne sta in cucina.

poi c’è l’unico libro ospite della collana “fuoricollana”, a cura di un maschio. peraltro, nella collana “saggi pop”, troviamo con viva sorpresa il titolo il tempo non esiste. l’uomo nell’eterno presente.

l’uomo? wtf? e nemmeno uno schwa, un misero asterisco, nulla: è possibile che alla riunione in cui si decideva il titolo silvia costantino fosse assente. insomma, per questa volta niente colori e inclusività. e a questo punto, tout se tient: in effetti, il serioso “giornale della libreria” ha rubricato l’articolo sotto la voce “curiosità”.


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in una quattordici senza sforzo_un libro di bruno cavallone

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non l’ho letto e mi piace. ne so solo quello che ho potuto ricavare dalla newsletter di henry beyle nella mia casella di posta: un antipasto così ghiotto da farmi venire la tentazione di comprare il libro intero, nonostante quelle carte inutilmente ricercate e quei prezzi colpevolmente spropositati dei libri di henry. qui si può leggere il profilo dell’autore, bruno cavallone. qui sotto riporto il brano da “avvocato, non parla: che cos’ha”? – una antologia personale: ah, il plurale affettivo.

Il plurale affettivo, o protettivo. Lo usano gli avvocati, quando dicono «noi» parlando del cliente: noi vogliamo essere assolti con formula piena; abbiamo eseguito a regola d’arte tutti i lavori appaltatici. Sublime il difensore del cane Citron in Les Plaideurs di Racine: quando abbiamo mancato di abbaiare ai ladroni? Lo usano anche le giovani mamme: oggi abbiamo mangiato tutta la pappa. O i fisioterapisti: adesso ci giriamo sul fianco sinistro. Molti anni fa, sentii dire con tono trionfale da una commessa londinese che usciva dal salottino di prova con una signora non esilissima: we got into a fourteen without struggle (siamo entrate in una quattordici senza sforzo).

 


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libri ambientati, shabby chic

tutto è cominciato con lo shabby chic. con quello stile rappresentato da pannelli di legno fintamente scoloriti dal salmastro, accompagnato da conchiglie, spago, merletti, una tazza di caffè/tè, che dovrebbero rimandare a una calda atmosfera di campagna eccetera.

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poi sono arrivati i blogger e gli instagrammer dotati di senso estetico, cui non basta leggere un libro e recensirlo: essi devono ambientarlo. per qualche motivo l’ambientazione shabby chic prevale, oppure prevale il panorama.

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poi, e questo lascia ancora più sconcertati, sono arrivati gli editori, con il libro ambientato shabby chic o (non so cosa sia peggio) didascalico: conchiglie per il libro estivo, fiori per il libro che parla di essenze eccetera. ed ecco su instagram, su facebook, su twitter, ovunque possa essere pubblicata, una sfilata di volumi che paiono adagiati su scrivanie di femmine adolescenti.

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molto onore, allora, a penguin uk, che per il suo ask again, yes sceglie un sobrio non luogo, uno sfondo bianco e una piccola ombra.

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mezza estate, oceano mare in città

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anna: “baricco mi ha sempre affascinata, anche per come parla e descrive le cose. lo seguivo in televisione, ma non ero mai riuscita a leggere qualcosa di suo. adesso ci provo con oceano mare.”

mrs. cosedalibri: “bisogna anche dire che baricco non è male.”

anna: “certo, è anche un bell’uomo.”

IMG-0449anna sta leggendo oceano mare al tavolino di un bar vicino a piazzale dateo. il bar è gestito da una squadra mista sino-italiana che collabora in armonia. la città attorno freme silente nel calore agostano. se fossimo in campagna si sentirebbe frinire attorno. non so se anna sieda a quel tavolino totalmente serena. nel suo sguardo pacato c’è qualcosa che grida aiuto. stiamo qui e ci presentiamo, fiduciose nelle parole e negli atteggiamenti. dopo il nostro cameo estivo questa lettrice e io non ci vedremo più.

oh, e bentrovati, cosedalibrini.


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fly me to the moon_obsolescenza dei tacchi secondo suzy menkes

adidas-stan-smith-j-s74778-s74778-9da tempo mrs. cosedalibri sostiene la necessità e la bellezza, per le ragazze, delle sneakers al posto degli invalidanti tacchi di qualsiasi altezza. adesso questa opinione è confortata dalle osservazioni della sovrana assoluta della moda, quella suzy menkes international editor di “vogue”. suzy le esprime in theorem[a] – the body, emotion + politics in fashion, di filep motwary, di recente uscita presso skira editore in collaborazione con polimoda. l’editor del volume, per ora solo in inglese, è la vostra anna albano, aka mrs. cosedalibri.

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Filep Motwary: Come si collega la società ai vestiti che si sceglie di indossare? Cerchiamo un significato più profondo nell’abbigliamento?

Suzie Menkes: Non credo che la maggior parte delle persone cerchi un significato profondo. La maggior parte delle donne – e anche degli uomini – vuole abiti che si muovano con il corpo. Abbiamo superato l’epoca in cui le donne camminavano in punta di piedi su tacchi altissimi, o in cui gli uomini si infilavano in enormi gilet per apparire intelligenti. Le persone sono andate oltre.

L’abbigliamento semisportivo per le donne ha cambiato tutto. Ora è perfettamente normale andare in ufficio con pantaloni stretch e scarpe da ginnastica. Nelle metropolitane di qualsiasi città dell’Estremo Oriente, o in America, India, Europa, ovunque la gente indossa scarpe da ginnastica perché sono comode. Le scarpe sportive ti permettono di usare l’energia come ti aggrada, non ti rallentano e sono diventate anche simboli di prestigio. Anche stilisti di haute couture come Karl Lagerfeld di Chanel fanno sfilare le sneakers, che in passato si sarebbero indossate solo sui campi da tennis.

Adesso le scarpe sportive sono decorate e rimandano segnali di ogni tipo. Sono diventate cool e la gente ama indossarle. Direi che è successo negli ultimi sette anni, forse anche meno. In questo caso, tuttavia, non parliamo di un significato più profondo, ma di persone convinte che portare il tipo di scarpe che indossano i rapper o le star dello sport dia loro un’identità.

Quando parliamo di significato più profondo nei vestiti – un esempio potrebbero essere le persone che in passato indossavano abiti neri per segnare una morte nella loro famiglia (dopo la morte del marito la regina Vittoria vestì di nero per il resto della vita) –, non riesco a pensare davvero a nulla di simile nell’oggi, a qualcosa che manda un messaggio a tutti gli altri. Ci sono però senz’altro tipi di abbigliamento che esprimono certe caratteristiche. Prada ne è un esempio: i veri seguaci di Prada puntano a dire: “Come Miuccia Prada, apprezzo il lato artistico del mondo.” Ma pochi cercano questa profondità in quello che indossano. La maggioranza cerca soprattutto il comfort.

filep motwary, theorem[a] – the body, emotion + politics in fashion, skira/polimoda, milano 2018, editing a cura di anna albano

 

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suzy menkes con pharrell williams. courtesy


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la vera finta società del marketing totale

in tempi di social network è diventato difficilissimo per le aziende tenere segreti i propri meccanismi di marketing. in un’epoca che porta in trionfo la parola “condivisione” su un baldacchino tutto stucchi e ori, “segreto” e “riservato” sono termini scandalosi, sacrificati in ogni momento sull’altare dell'”autenticità”, dell'”onestà”, dell'”integrità” dell’azienda nei confronti del cliente re.

gli strateghi dei social media, impegnati a compiacere i clienti tiranni, creano loro attorno un edificio dove tutto deve sapere di domesticità, di valori etici, di sincerità a ogni costo, di trasparenza. un cambiamento spiegato molto bene ai suoi albori negli stati uniti da gary vaynerchuck nel suo the thank you economy.

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ogni lamentela su twitter è sacra, ogni appunto su facebook da considerare con la massima serietà, ogni scoppio emotivo illustrato su instagram degno di attenzione. tutto questo nella società dei diritti ha senz’altro migliorato la condizione del cliente, che da possibile turlupinato è passato a soggetto attivo, in grado con una catena di post di affossare le sorti di un marchio sia pure prestigioso. prendiamo il recente scandalo planetario che ha visto protagonisti dolce & gabbana: una serie di spot malaccorti per promuovere la prima sfilata del marchio a shanghai, con ingenui riferimenti a una comunione tra culture rappresentata dal cibarsi di specialità italiane usando bacchette cinesi, sulla base di oleografici stereotipi afferenti a entrambe. fin qui tutto mediocremente bene. lo scandalo degli ingenui scandali risiede in uno tra gli spot, quello in cui una ragazza cinese in abito lustrinato d&g affronta un enorme, falliforme cannolo siciliano e una paternalistica voce fuori campo le chiede se sia troppo grosso per lei.

spot-kWaH-U3060951637582a3-1224x916@Corriere-Web-Sezioni-593x443-kYhB-U30601003460328imF-1224x916@Corriere-Web-Sezioni-593x443.jpgmi appello all’onnipotente chiedendogli che diavolo gli è preso di ispirare il copywriter con questa vastissima cazzata e come hanno fatto d&g ad approvare la stessa. il collegamento con il discorso che stavamo facendo è: come sarebbe andata in epoca pre-social? forse la cosa sarebbe passata sotto silenzio, oppure un solerte ufficio stampa avrebbe cercato di rimediare con qualche comunicato surreale, sostenuto da motivazioni altrettanto surreali.

invece d&g – soprattutto g, nella realtà, e nella fattispecie su instagram, portatore di robusti insulti poco rispettosi delle necessità del marketing – hanno dovuto piegarsi alla tirannia social e hanno dovuto diffondere un video in cui, prostrati, pallidi e malvestiti, hanno confezionato un frusto invito alla bellezza della diversità e spinto il lato grottesco dell’intera operazione fino alle scuse proclamate all’unisono in cinese.

il sentimento preponderante è la pena. non vogliamo negare gli aspetti positivi di questo tipo di marketing che mette al centro il cliente, ma proviamo un filo di nostalgia per quell’atmosfera più segreta, più fetente, meno etica delle strategia pre-social: paperon de’ paperoni, dove sei?

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