vi ricordate di nerino lantignotti? mrs cosedalibri ne aveva parlato qui, fantasticando sulla sua identità. nerino, nella mente di chi scrive, aveva frequentato tutti i libri. nerino aveva e ha un nome che richiama cose buone.
stamattina, appena sollevata la tapparella, ho rivisto la macchina di nerino sul marciapiede di fronte. nerino ha cambiato la grafica del suo biglietto da visita su ruote. da scritta rossa in campo bianco è divenuta una scritta bianca su una fascia blu.
non avevo notizie di nerino dal 2017, l’anno in cui lo incontrai per la prima volta. mi ha colta una felicità subitanea, ho aperto la finestra e ho guardato il veicolo a lungo. nerino, lui, non è comparso. ma io so che è vivo, e che tra qualche anno potrò scrivere un terzo post su di lui.
non l’ho letto e mi piace. ne so solo quello che ho potuto ricavare dalla newsletter di henry beyle nella mia casella di posta: un antipasto così ghiotto da farmi venire la tentazione di comprare il libro intero, nonostante quelle carte inutilmente ricercate e quei prezzi colpevolmente spropositati dei libri di henry. qui si può leggere il profilo dell’autore, bruno cavallone. qui sotto riporto il brano da “avvocato, non parla: che cos’ha”? – una antologia personale: ah, il plurale affettivo.
“Il plurale affettivo, o protettivo. Lo usano gli avvocati, quando dicono «noi» parlando del cliente: noi vogliamo essere assolti con formula piena; abbiamo eseguito a regola d’arte tutti i lavori appaltatici. Sublime il difensore del cane Citron in Les Plaideurs di Racine: quando abbiamo mancato di abbaiare ai ladroni? Lo usano anche le giovani mamme: oggi abbiamo mangiato tutta la pappa. O i fisioterapisti: adesso ci giriamo sul fianco sinistro. Molti anni fa, sentii dire con tono trionfale da una commessa londinese che usciva dal salottino di prova con una signora non esilissima: we got into a fourteen without struggle (siamo entrate in una quattordici senza sforzo).“
anna: “baricco mi ha sempre affascinata, anche per come parla e descrive le cose. lo seguivo in televisione, ma non ero mai riuscita a leggere qualcosa di suo. adesso ci provo con oceano mare.”
mrs. cosedalibri: “bisogna anche dire che baricco non è male.”
anna: “certo, è anche un bell’uomo.”
anna sta leggendo oceano mare al tavolino di un bar vicino a piazzale dateo. il bar è gestito da una squadra mista sino-italiana che collabora in armonia. la città attorno freme silente nel calore agostano. se fossimo in campagna si sentirebbe frinire attorno. non so se anna sieda a quel tavolino totalmente serena. nel suo sguardo pacato c’è qualcosa che grida aiuto. stiamo qui e ci presentiamo, fiduciose nelle parole e negli atteggiamenti. dopo il nostro cameo estivo questa lettrice e io non ci vedremo più.
l’articolo del “corriere della sera” ci porta nel laboratorio di gian antonio garlaschi, self-made man con un passato da odontoiatra e da custode di musei, che cura e ripara i volumi usurati dai troppi prestiti o rovinati da lettori poco attenti. buona lettura.
dopo il trionfo al victoria & albert di londra, il 19 gennaio ha aperto a roma (e durerà fino al 1° luglio) la mostra “the pink floyd exhibition: their mortal remains”, a cura di aubrey “po” powell e paula webb stainton (qui un breve video di presentazione). la accompagna la versione italiana del volume dallo stesso titolo, prodotto da victoria&albert e realizzato da skira editore. la vostra anna albano ne ha curato l’editing con grande piacere.
sfogliando il libro si è assaliti da un grande rammarico per non esserci stati. sentite qua:
“Quando David Bowie incontrò David Gilmour dietro le quinte del concerto alla Royal Albert Hall nel 2006 gli disse che si sarebbe esibito con lui solo a condizione che cantassero Arnold Layne. Perché proprio Arnold Layne?, chiese poi un giornalista. Perché, spiegò Bowie, la parte vocale di Syd Barrett in quella canzone aveva cambiato la sua vita: gli aveva insegnato a cantare con la sua voce, il suo accento, esattamente come quando parlava, senza cercare di sembrare americano o nero o cool, a cantare essendo solo sé stesso.
I Pink Floyd mitizzarono Syd quale loro fondatore e spirito guida, ma quasi mai si riconosce a sufficienza quanto lui, Roger Waters, Richard Wright e Nick Mason insieme cambiarono il panorama musicale britannico (e di conseguenza quello mondiale). Per quanto abbia vissuto da vicino il loro avvento al successo – avendone prodotto il primo singolo e avendoli presentati al Club UFO in quei magici mesi del 1967 –, e per quanto fossi rimasto esaltato all’epoca dalla loro stupefacente originalità, non avrei mai potuto prevedere un impatto tanto duraturo.
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Nel giugno del 1965 l’esibizione di Allen Ginsberg fu la più acclamata dell’International Poetry Incarnation alla Royal Albert Hall. La primavera seguente (grazie alle “antenne” della libreria della controcultura Indica Books) Londra conobbe gli Acid Test organizzati da Ken Kesey a San Francisco e The Fugs, gli eroi della scena musicale del Lower East Side di New York. Numeri del “Village Voice” di New York vecchi di qualche mese riportavano le recensioni dei film underground di Jack Smith e Jonas Mekas, gli happening dei situazionisti sconvolgevano Parigi e i barbuti sostenitori delle droghe del movimento dei Provos diventavano forza politica della giunta comunale di Amsterdam.
Londra aveva i suoi eccentrici creativi, ma la sua funzione primaria nella rivoluzione che si stava pian piano agitando sembrava essere quella di crocevia. Personaggi straordinari vi fecero tappa mentre viaggiavano da Parigi all’Irlanda, da New York al Marocco o da San Francisco a Delhi. Il climax di Don’t Look Back è la permanenza di Bob Dylan a Londra durante la sua tournée del 1965. Dopotutto, la città aveva i Beatles, i Rolling Stones, le minigonne e King’s Road, fenomeni “overground” ormai consolidati e redditizi. Nemmeno nell’estate del 1966, quando una nuova energia stimolata dalle vicende politiche e dalla comparsa di droghe fino a quel momento sconosciute animava il globo, a Londra qualcosa faceva intuire che quella rivoluzione sarebbe stata speciale: fino a quel momento l’entusiasmo fu perlopiù importato da fuori.
Poi, all’inizio dell’autunno, cominciarono i fermenti nella zona W11 della città (i quartieri di Notting Hill, Ladbroke Grove e Westbourne Grove). Tutti i resoconti del movimento psichedelico underground londinese iniziano con gli eventi di beneficenza di Powis Square, il cui obiettivo era portare la Rivoluzione a Notting Hill Gate, quel tentativo idealistico conosciuto con il nome di London Free School. Le luci, la musica, l’atmosfera, i freak, le droghe, i Pink Floyd che si esibivano, i balli… improvvisamente ci furono un centro e appuntamenti ricorrenti di cui parlare, da aspettare con ansia, da confrontare con altri. La zona W11 fu rapita da un’esaltazione che era sotto gli occhi di tutti. Eravamo decollati!”
dal capitolo “Il decollo”: Syd Barrett, i Pink Floyd e la cultura underground londinese di Joe Boyd
il triangolo che separa le due parti del testo è una finezza del progetto grafico, con un richiamo alla copertina di the dark side of the moon.
divertitevi con i pink floyd: andate a roma e comprate il libro, che amazon offre con un ottimo sconto. al prossimo bell’editing.
qualche giorno fa, da bonvini – di questa magnifica cartoleria-tipografia avevamo già parlato qui – si è inaugurata la piccolissima mostra del collettivo libri finti clandestini. l’apertura è stata preceduta da una residenza settimanale degli artisti nell’atelier 1909, il nuovo spazio bonvini, attraverso la cui vetrina si poteva osservare il collettivo al lavoro.
la politica bonvini, che ha dato sinora ottimi frutti, è quella dei passi avveduti: accurate selezioni di oggetti legati a carta, stampa, cancelleria – a proposito: chi cercasse l’ultimo modello di casa palomino trova in bonvini una certezza – e di iniziative, e adesso questo piccolo spazio giusto dietro l’angolo, che a giudicare dall’esordio promette benissimo.
ecco l’autodescrizione di libri finti clandestini:
“Libri Finti Clandestini è un esperimento di autoproduzione nell’ambito del riciclo, in relazione all’editoria e al design il cui scopo è quello di realizzare veri e propri libri (sketchbook, taccuini, diari di viaggio, “libri oggetto”, carnet de voyage…) usando solamente “carta trovata in giro”, carta che la gente considera spazzatura: scarti di tipografie, prove di stampa e carte di avviamento, sacchetti della spesa, poster, buste, sacchetti del pane, carta da parati…
Essi possono essere piccole tirature pop up (edizioni di 50, 100 numeri) o libri pronti per essere scritti, disegnati o per assumere qualsiasi altro significato il possessore voglia dargli.”
libri e quaderni da usare a piacere e poi libri unici, pieni di grazia, pop up in cui dimorano piccoli circhi d’antan, omaccioni rotondi che sostengono le evoluzioni di acrobate leggiadre, forzuti sollevatori di pesi, viaggiatori in paesi lontani.
ritagliando e creando miniuniversi libri finti clandestini è arrivato sino in giappone, e prevedibilmente camminerà ancora molto. magari reggendosi poeticamente sulla fune come gli atleti circensi un po’ malinconici che vivono nei suoi libri.
come bonvini, lfc poggia su un relativo superfluo, su un nulla che si fa sostanza nello sguardo e nelle azioni di chi osserva, immagina, scrive, disegna, impara a stampare. e tutto si fa nutrimento, tutto si tiene, tra via tagliamento e corso lodi, a milano.
la gelateria clover, in zona bande nere, è anche una caffetteria, e fa un latte macchiato con i fiocchi. l’interno ospita tre minuscoli tavolini – immacolati, come tutto in questo locale –, in attesa dell’estate, quando torneranno ad animarsi i posti all’esterno. il personale e la proprietaria ricevono i clienti con squisita cortesia.
la gelateria clover, a sinistra dell’ingresso, ha una minuscola stazione di bookcrossing. il primo libro sulla destra, quando al clover è entrata mrs. cosedalibri, era il baco da seta, di robert galbraith, prodotto in condizione di bonaccia, dopo la travolgente tempesta di harry potter, da j.k. rowling sotto pseudonimo. esito superbo della calma, però, da cui è stata tratta strike, una piccola, preziosa serie tv che prende il nome dall’investigatore protagonista ed è prodotta dalla bbc.
al clover si scrive benissimo: puoi fermarti con il tuo taccuino (o il tuo libro – portato da casa o scelto tra quelli che aspettano sul termosifone) ed essere certo che nessuno ti disturberà.
al clover si può anche fare merenda, e qui il letterato trova crêpes per i suoi denti: perché le crêpes del clover si chiamano
la visita a questa gelateria, che sprizza bonomia pur proponendo anche specialità vegane – non si adontino i seguaci del veganesimo: alcuni tra loro cercano di fare proselitismo instillando sensi di colpa nel prossimo, un atteggiamento assai fastidioso – è stato un piccolo dono in una fredda giornata di sole, in cui chi scrive disperava di trovare un luogo accogliente in una zona che proprio accogliente non è. grazie, signore clover*, ci rivedremo senz’altro.
loredana laurenti accanto al mini bookcrossing di clover
*le signore clover sono loredana laurenti e ilaria angelillo, madre e figlia. fanno in casa molte delle delizie che propongono, e ilaria è copywriter di sé stessa. i titoli dei prodotti sono suoi: tra i molti segnalo gli ammutinati, dolcetti al cocco e cioccolato il cui nome fa ironica concorrenza alla celebre barretta industriale.
questo post è stato scritto su un taccuino clairefontaine papier vélin velouté 90g/m2 fabriqué en france par clairefontaine, con una stilografica caran d’ache collezione chromatics che montava una cartuccia montblanc burgundy red.