cose da libri

dove si esplorano parole e si va a caccia di idee


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Fisime e nuove fisime (itineranti e praticissime)

“Una recensione letteraria

Mi è arrivata a casa la nuova guida telefonica. È scorrevole, ma ha poca trama e un sacco di personaggi.”

Del teatrante – è autore e attore del Pupkin Kabarett – e scrittore Stefano Dongetti e delle sue Fisime avevamo già scritto qui e qui. Dongetti ha continuato a scrivere ed ecco le Fisime da passeggio, questo il titolo dell’aureo libretto, di formato piccolo, più che tascabile, sempre edite dal triestino Calembour. Il progetto grafico minimal è di Marco Covi, che già aveva curato quello delle Fisime grandi.fisime-da-passeggio

Le Fisime piccole, contrariamente a quanto accadeva con le sorelle maggiori, appaiono più calate nella contemporaneità. Dongetti scende nell’arena dei social – parla di Facebook e inventa un gustoso Tripadvisor dell’aldilà –, irride vezzi contemporanei come quelli di mimare le virgolette quando si parla, discetta di politica: “[…] Sulle riforme c’è anche da dire che queste di solito sono sempre serie. Nessuno, almeno pubblicamente, pare voler propendere per delle riforme ridicole o umoristiche, anche se gli esempi non mancano”.

Nonostante la presenza di un paio di monologhi, rispetto al libro precedente Dongetti si affranca da quella che avevamo definito “nostalgia del palcoscenico”: Fisime da passeggio è una capricciosa miscellanea che vive a sé sulla carta, pervasa da un cinismo malinconico, mai urticante, sempre sostanziata dalla passione civile del suo autore. Si conclude con una divertentissima serie di giochi di parole (qui lo immagino, Dongetti, al Caffè San Marco di Trieste, dove è di casa, penna e taccuino alla mano, mentre annota certi improvvisi guizzi), tra i quali trascelgo il seguente: “Bibliofili: gli accumulatori seriosi”.

Stefano Dongetti, Fisime da passeggio, Calembour, Cormòns 2016, 5 eurini ottimamente spesi.

Se non siete di Trieste, compratelo online su la botega triestina, qui.

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Il Pupkin Kabarett. Al centro, Stefano Dongetti


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l’arte di annotare e un moleskine che non è un moleskine

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come i lettori sanno, “cose da libri” non insegue le novità librarie, a meno che tra esse non vi sia qualcosa che cattura davvero il suo interesse.

scrivere idee – annotazioni e appunti, di hanns-josef ortheil, è uscito nel 2012 nella collana “scritture creative” della benemerita zanichelli. un prezioso libretto confezionato come un taccuino, in cui peraltro l’autore, nella prefazione, cita esplicitamente moleskine. ortheil racconta agli aspiranti annotatori il modo di prendere appunti di scrittori e artisti; ogni capitolo è concluso da esercizi, ad esempio “cercate in una città una piazza, piccola e non troppo dispersiva e, alla maniera di georges perec, osservate per diversi giorni tutto quello che vi accade. stilate delle liste con tutto quello che vi passa davanti […]. raccogliete le osservazioni sui diversi movimenti all’interno della piazza. trovate i dettagli poetici e continuate ad annotarli sotto forma di incipit narrativo di una storia.”

il sommario

• premessa

• introduzione: l’arte di annotare

• progettare un testo ed esercitarsi nella scrittura I: annotazioni di base

• progettare un testo ed esercitarsi nella scrittura II: annotazioni figurative

• progettare un testo ed esercitarsi nella scrittura III: annotare le emozioni e le passioni

• progettare un testo ed esercitarsi nella scrittura IV: annotazioni classiche

• considerazioni finali: vivere la scrittura

• bibliografia

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lewis carroll, manoscritto di alice nel paese delle meraviglie. courtesy

dalla premessa (il grassetto è mio)

“Nicola è perfettamente connesso e ha sempre con sé tutto ciò che serve nella giungla moderna: uno smartphone, un portatile, un tablet. Se la cava bene: messaggia, manda mail e twitta, scrive sul suo blog ogni due giorni, posta su Facebook almeno tre volte al giorno, è sempre al telefono e quotidianamente attinge notizie fresche fresche dalla rete.

Poi però viene il giorno in cui all’improvviso un suo amico arriva con un taccuino: è nero, maneggevole, marca Moleskine, con una chiusura a elastico che non passa inosservata. È semplice, ma allo stesso tempo anche nobile e si capisce che contiene qualcosa di personale e di molto speciale, che non tutti possono leggere. […] Ogni volta che toglie l’elastico emette un lieve sospiro e comincia a scrivere con un’espressione assorta sul volto. Sembra quasi uno scrittore vero e Nicola deve constatare che, con il passare dei giorni, lo sta proprio diventando.

Ma non è tutto. Ben presto Nicola si rende conto che in giro i taccuini Moleskine aumentano in modo incredibile. […] Persone che prima non avevano mai pensato a scrivere o ad annotare, sono colpite da una vera e propria ‘taccuino-mania’. […]

Ovvio che Nicola non resiste. Anche lui compra un taccuino e almeno una volta al giorno sta seduto all’aperto a un tavolino del suo caffè preferito, per annotare ciò che vede e ciò che gli passa per la testa. Tutto questo ha qualcosa di molto artigianale e addirittura rassicurante. È così, pensa Nicola, una piacevole contro-esperienza rispetto alla veloce scrittura elettronica. Tuttavia fondamentalmente non sa scrivere delle annotazioni a mano. E soprattutto non sa cosa deve annotare. La verità è che adesso sta facendo qualcosa per se stesso e non per una community con i suoi temi prestabiliti. […]

Scrivere idee […] mostra come e perché annotare può essere un’arte e permette a Nicola di conoscere alcuni dei migliori scrittori al mondo che si sono cimentati con questo tipo di scrittura.”

dalle pagine 120-121

“Walter Benjamin scrisse questi appunti [quelli relativi al progetto “Parigi capitale del XIX secolo”] con una penna stilografica e una matita. Come lui, gli studiosi dei secoli passati attingevano le loro conoscenze da brani tratti dai libri. Riportare le citazioni a mano era diventato, dall’avvento della stampa, il metodo più diffuso per trattenere il sapere e immagazzinarlo per un impiego successivo. Esistevano addirittura dettagliati manuali con regole e consigli per copiare e ordinare le citazioni. […]

Sulla scia di questi archivi si cominciò a utilizzare anche taccuini, in cui idee o riflessioni potevano essere registrate in ogni momento. Sappiamo che filosofi che Friedrich Nietzsche e Ludwig Wittgenstein, per esempio, avevano sempre con sé un taccuino del genere, su cui scrivevano continuamente le loro annotazioni.”

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appunti di mark twain. courtesy

da pagina 148

“Attraverso l’annotazione ci si estrania dal flusso degli eventi e della realtà e ci si concentra su un aspetto preciso, facendolo proprio. […]

Annotare è lo stimolante ideale delle capacità intellettuali, la caffeina letteraria per eccellenza. […] la penna si muove sulla carta o le dita sulla tastiera nel modo più immediato possibile. La mente è lucida, le cellule nervose sono in azione e il flusso della scrittura scorre.”

dalle pagine 150-151

“La questione sta proprio nell’annotare quotidianamente, senza interruzioni. Periodi di pausa, anche brevi, si fanno sentire immediatamente, come accade con il musicista che trascura il proprio strumento. Anche la scrittura diventa incerta, lenta e perde di vivacità. Un esercizio regolare e frequente mantiene la fluidità della lingua. Anche riportare date e segni del mondo esterno può contribuire a questo, grazie inoltre ad associazioni, similitudini e metafore che completano e strutturano ciò che è stato scritto.”

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un taccuino di roger de muth. courtesy

hanns-josef ortheil, scrivere idee – annotazioni e appunti, traduzione di carolina d’alessandro, zanichelli, bologna 2012, 15 euro spesi molto bene


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Self-publishing con happy ending: “(Non) si può avere tutto”

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Sono particolarmente felice di annunciare l’uscita di (Non) si può avere tutto, di Gheula Canarutto Nemni, prevista per il prossimo 3 marzo per i tipi di Mondadori Electa.

È la storia di una donna, ebrea ortodossa, milanese, intenzionata a conciliare la propria religione con le proprie aspirazioni lavorative nel mondo secolare. Una vicenda che offre un raro spaccato su un modo di vivere che ai più risulta misterioso, impastato com’è di una onnipresente spiritualità totalmente riflessa nella pratica e di valori non negoziabili. Proprio l’inderogabilità di questi valori rappresenta il limite all’azione della protagonista, che dovrà dare fondo a tutta la propria creatività e alla propria determinazione per aggirarlo.

Noi Recanati siamo osservanti. Ebrei definiti dai giornali e altri mass media come ortodossi. Ovvero persone che cercano di seguire le leggi della Torah cogliendo la sfida di una vita non facile, ogni giorno. Scegliendo della modernità ciò che può felicemente convivere con i dettami di D-o ed evitando o modificando tutto quello che non vi si allinea. Seguendo la stessa strada percorsa dai nostri antenati per migliaia di anni.

Moglie prima della fine del liceo, studentessa e poi docente alla Bocconi – nel frattempo ha generato sette figli –, circondata da uomini che considerano la maternità una condizione invalidante per la carriera e da donne che rinunciano a parecchio pur di conseguirla e mantenerla, Deb Recanati non demorde, convinta che si possa non rinunciare a nulla. E riesce a conciliare la vita di dentro e quella di fuori con un’abilità stancantissima, sino a un epilogo spiazzante.

Dal punto di vista editoriale la storia di questo libro è altrettanto bella e incoraggiante: autopubblicato con un buon successo, arriva per vie imperscrutabili all’editor di Mondadori Electa, Valentina Lindon, la quale decide che è buono e cerca l’autrice. E dà inizio a una storia professionale virtuosissima, fatta di lavoro e di confronto, di rispetto e di competenza nei rapporti. Una storia che a mrs. cosedalibri non capitava da un po’, così soddisfacente.

Quando si lavora su un testo, il rapporto che si instaura con l’autore è il perno su cui gira tutto. Se si riesce a innescare quel processo di mimesi virtuosa che serve per “essere” pro tempore la voce dell’autore, allora il libro vola. A cose fatte, ho nostalgia di quelle lunghe, fruttuose, istruttive e divertenti sedute che hanno accompagnato la genesi del volume.

Copio e incollo qui sotto, dal comunicato stampa di Mondadori, la biografia dell’autrice.

Gheula Canarutto Nemni è nata a Milano nel 1972, dove vive con molti figli e il marito. Laureata in economia e commercio presso l’università Bocconi, dove è poi tornata ad insegnare per sette anni. Ha pubblicato Responsabilità sociale ed etica ebraica (Egea, 2006). Scrive regolarmente per il settimanale “Pensieri di Torà” e collabora occasionalmente con altre testate per le quali scrive su tematiche ebraiche e femminili. Si occupa della comunicazione e dello sviluppo di iniziative culturali per il Milan Jewish Center, centro culturale ebraico progettato da Daniel Libeskind. Il suo blog è http://www.gheulacanaruttonemni.com. Questo è il suo primo romanzo.


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Truman Capote vecchio bambino

avedon_geolette.com

In una foto di Richard Avedon. Courtesy

Insieme partivamo per meravigliose avventure immaginarie. Mi telefonava da New York e mi diceva: “Domani andiamo a Parigi”. Io andavo a prenderlo all’aeroporto; venivamo a casa, accendevo la segreteria telefonica e annullavo qualsiasi impegno avessi per il giorno seguente. Al risveglio, il mattino dopo, lui entrava portando un vassoio di croissant con zollette di zucchero dell’hotel Ritz e vasetti di marmellata dell’hotel Crillon, che ovviamente aveva rubato. Poi tiravamo fuori libri del museo Rodin, libri sul Louvre, e fingevamo di andarci. “Adesso andiamo a pranzo”, diceva; sceglieva un ristorante e cucinavamo in stile francese; così passavamo una giornata intera a Parigi senza muoverci. Facemmo la stessa cosa con la Cina. Andammo in Spagna; andammo in Messico, in Italia e in Inghilterra. Per il viaggio in Cina portò certi vasetti per medicine in terracotta dipinta. Ordinammo cibo cinese. Mangiavamo seduti sul pavimento davanti al caminetto, e poi guardavamo le carte geografiche della Cina. Diceva: “Oggi andiamo a Shanghai. Ecco che cosa visiteremo”. Sfogliavamo i libri che aveva portato. Non so come facesse. Passava mesi ad assemblare quel materiale prima di partire per un “viaggio”.

Joanne Carson su Truman Capote

newyorker.com

Con le copie di In Cold Blood sotto il braccio. Courtesy

La biografia di Truman Capote pubblicata da George Plimpton è un libro corale; come dice lo stesso autore nell’introduzione, è più che possibile perdersi tra tutte le voci, ma alla fine le molte tessere si compongono e il ritratto di Capote emerge. Ed è un ritratto disturbante, da cui traspaiono qualità umane contrastanti: dai viaggi progettati e compiuti a tavolino in cui appare come uno splendido fanciullo alla morbosità della vicenda di A sangue freddo – Capote ebbe presumibilmente un affaire con Perry Smith, uno dei due assassini; e Capote è anche l’autore di quel concentrato di bizzarra empatia intitolato Una giornata di lavoro, in Musica per camaleonti.

Frank Sinatra e Mia Farrow al ballo in bianco e nero di Truman Capote

Frank Sinatra e Mia Farrow al ballo in bianco e nero di Truman Capote

formidablemag.com

L’invito per il ballo. Courtesy

Truman è un bambino creativo e trascinante. Vuole essere scrittore, vuole essere celebre e vuole essere ricco. Esordisce con Altre voci, altre stanze, inventa il non-fiction novel con A sangue freddo, che gli darà la fama e la ricchezza cui ambisce. Fa della sua vita un’opera d’arte e vive pericolosamente tra il bello e il sordido. Frequenta il bel mondo, avido di persone e fatti. Dopo lo scherzo masochistico di Preghiere esaudite, però, Capote si accorge che la café society non lo ha mai considerato un suo membro a pieno titolo. I pochissimi che gli rimangono accanto, tra cui Joanne Carson, che lo vedrà morire, lo amano di un amore assoluto e protettivo, ma dopo quel libro di acuminati pettegolezzi la sua parabola umana e artistica si fa irrevocabilmente discendente. Il narratore dalla ricca vena, accolto nell’alta società come giullare, come adorabile eccentrico cui si perdona molto, viene bandito dal regno.

[…] lo mollarono come una patata bollente, cosa che lui non si era mai, mai aspettato.

Era completamente avvilito. Aveva costruito questo incredibile edificio di legami sociali e grande successo, che crollò letteralmente da un giorno all’altro. Il problema è che non aveva alcuna statura, socialmente parlando. Non aveva famiglia. Era solo un ornamento. Non aveva nulla a cui appoggiarsi in un momento di difficoltà. Truman Capote lo potevi mollare da un giorno all’altro, perché non c’era il rischio di alienarsi nessuno. Truman era là fuori tutto solo.

Angelo d’innocenza e spiritello maligno al tempo stesso, creatura dalle dimensioni fisiche esigue, Capote tesse la propria esistenza tra una vocazione irreprimibile alla festa e la depressione, preda di una sorta di horror vacui che lo vede organizzatore puntiglioso di uno dei balli più celebri della storia ma anche dipendente da misture di alcol e pastiglie, per un periodo sotto le cure di una ragazza figlia di uno dei suoi amanti. James Dickey, nel libro, dà una definizione del suo talento e tesse le lodi della sua capacità di concentrazione, una virtù che ci rende nostalgici ed è una big issue per chi scrive e legge nell’epoca dei social network:

Il talento di Truman Capote: è su questo terreno che possiamo confrontarci con lui, congetture a parte. Questa figurina infantile, questo ragazzo di campagna fattosi da sé, dallo stile innato, autodidatta, che cos’aveva imparato in questa sua formazione? A concentrare: escludere, avvicinare, isolare. La sua scrittura nasceva in primo luogo da un grande e autentico interesse per molte cose e persone, e poi da un distacco, da una sospensione, in cui si esercitava come ci si potrebbe esercitare al piano o in una posizione di danza classica. Coltivate in tal modo, le sue capacità di immersione in un argomento divennero pressoché assolute, abbinate a una memoria già notevole, in particolare nel rievocare i dettagli più minuti. Possedeva in misura insolita quest’abilità di avvicinarsi al soggetto scelto, qualunque cosa o persona fosse, così che nulla esisteva più tranne lui e l’altro; a quel punto lui stesso cominciava a svanire e al suo posto apparivano le parole: parole dal punto di vista del soggetto, quasi fosse lui a dettarle. Nelle parti migliori della sua opera questo solipsismo autocancellante – se non è una valutazione troppo contraddittoria – coincide con la visione delle cose di Truman, che era in grado di utilizzarlo in qualunque situazione e con chiunque, da Marlon Brando o Isak Dinesen a Bobby Beausoleil, nel carcere di San Quentin, o Perry Smith nel braccio della morte in Kansas.

George Plimpton, Truman Capote – Dove diversi amici, nemici, conoscenti e detrattori ricordano la sua vita turbolenta, traduzione di Alba Bariffi, Garzanti, Milano 2014, pp. 464, 29 euro ottimamente spesi


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Quante fisime_il libro di Stefano Dongetti

Ci sono parecchie fisime nell’omonimo libro di Stefano Dongetti, comico e autore teatrale, pubblicato dall’editore triestino Calembour. Che si definisce, con amoroso uso della virgola, “una piccola casa, editrice” (l’editore in carne e ossa è Rino Lombardi, copywriter nonché fondatore e grande capo del Museo della Bora). Nel volume si raccoglie un universo stralunato di scrittori, gente che aspetta l’autobus (la serie degli Incontri, per l’appunto alla fermata), coppie in crisi e lavatrici. Molte lavatrici, e non solo nell’Apologo dell’eremita.

L’apologo dell’eremita

Un eremita si ritira a vivere dentro a una lavatrice per meditare sul segreto della felicità. I suoi discepoli lo attendono per venti lunghi anni. Una mattina l’eremita esce dalla sua lavatrice e annuncia: “Il segreto della felicità è poco detersivo e un risciacquo breve”. I suoi discepoli allora lo ributtano dentro la lavatrice, ne sigillano l’apertura con la fiamma ossidrica e la gettano in mare. Quello che ci insegna questa preziosa storia è che non tutti gli uomini sono pronti per accogliere dentro di loro la verità. ma sono prontissimi a gettare in mare degli elettrodomestici.

Come la maggior parte dei libri-copione (Fisime è sostanzialmente una raccolta di monologhi), chi legge sente talvolta nostalgia del palcoscenico: nel senso che ogni spettacolo trasposto su carta subisce una piccola morte, e che quelle parole sono più vive se sostanziate della voce e dei gesti dell’attore. Fisime supplisce tuttavia molto bene con le illustrazioni dello stesso autore, che procedono con i testi e fanno compagnia. Onore al merito per quanto concerne la cura editoriale: il libro è privo di refusi e l’impaginazione è assai fresca, con opportuni spazi bianchi di respiro. Segnalo altresì, a conclusione del volume, un “Indice senza i numeri di pagina per innervosire il lettore”. Last, but not least, troviamo in esergo due citazioni, una da Bob Dylan e una da Jacques Vaché (allora come non adorare Dongetti?), probabilmente da una sua lettera (non scrisse che quelle). Vaché fu un surrealista senza opere, amico di André Breton, di cui si può leggere un sintetico profilo e ammirare alcuni disegni sul sito di :duepunti, dove le suddette lettere si vendono raccolte in volume. Continua a pubblicare, Calembour. 41Pu243OrbLStefano Dongetti, Fisime e altri pezzi celebri almeno per me, Calembour, Cormòns 2014, 150 pagine, 12 euro


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Michelangelo e il dente dei cattivi: uno studio di Marco Bussagli

9788876983122“La presenza del mesiodens nell’affresco del Giudizio Universale di Michelangelo non è stata notata da nessuno e il grande artista si è ben guardato dal divulgarla. […] a farmi notare la strana presenza di questo dente al centro della bocca di demoni e dannati fu Maurizio Rossi […]. Fu quella una mattinata, per me, di certo memorabile, quando uno dei primi giorni di dicembre del 1986 salii, con il maestro Rossi, sui ponteggi montati davanti alla parete del Giudizio Universale. Si andava su una specie di ascensore infilato fra i tubi Innocenti, comandato da una scatola blu piena di bottoni. Faceva freddo e io avevo il cappotto. Il maestro aveva il suo solito grembiule. Iniziammo dalle lunette che erano tutte restaurate e poi, con calma, prendemmo a scendere soffermandoci sui punti salienti del capolavoro come il Cristo e la Vergine, san Lorenzo, san Bartolomeo e san Sebastiano. Poi fu la volta degli angeli tubicini. Quando arrivammo all’altezza di Caronte e degli altri diavolacci che concludono l’affresco, fermandoci dinanzi alla figura del demonio che sbuca dalla grotta, Rossi mi spiegò che quello che eravamo abituati a vedere come un satanasso dagli occhi di bragia e sul quale la critica aveva versato i proverbiali fiumi di inchiostro, esaltando la capacità del Buonarroti di anticipare addirittura gli impressionisti inaugurando una pittura compendiaria, fatta di grandi contrasti, in realtà era un falso. […] mi spiegò che siccome le candele sistemate sull’altare inondavano di fumo la parete annerendo le figure, il mundator incaricato di mantenere integro l’affresco e di spolverarlo, quando il demonio iniziava a scomparire sotto la fuliggine, raschiava il nero per far vedere almeno gli occhi e i denti. […] Così […] mi fece notare quel dente centrale che compariva nei diavoli e, per deduzione, nei dannati. Rossi non scrisse mai nulla sull’argomento, e nulla si trova neppure nei libri che furono dedicati agli interventi sull’affresco […]”.

Marco Bussagli, I denti di Michelangelo. Un caso iconografico, Medusa, Milano 2014, 176 pagine, 19 euro molto ben spesi Continua a leggere


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Esce il libro di Monica Pareschi: “È di vetro quest’aria”

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Click click click per vedere il volto della traduttrice Monica Pareschi

Conosco Monica Pareschi da quando era piccola. Nel senso che la prima sua cosa che ho letto è stato un lieve racconto funebre dal titolo impegnativo, I morti (qui, però, niente neve e nostalgia di amori giovanili), pubblicato sulla “Rivista intelligente” di Giovanna Nuvoletti e scritto dal punto di vista di una bambina.
Lieve, per l’appunto, poiché “quei morti lì erano morti da così tanto tempo che nessuno li piangeva più, e oltretutto erano morti allegri”, eppure con tutto il peso di un linguaggio preciso e affilato come lo scatto di quella chiusura che ti pare di vederla, la borsetta delle sorelle del nonno: “Precedute dal clic assertivo delle borsette – l’occasione meritava il coccodrillo – e avvolte da una fragranza momentanea di menta e fazzoletti puliti, un paio di sorelle di mio nonno, in pelliccia di persiano e in un angolo, recitavano dapprima sommessamente e poi in un crescendo entusiasta il rosario […]”.
Per non parlare del finale che, nella sua asciutta tautologia, della sabaudità di Pareschi dice tutto: “…e fine della storia”.
L’ho incontrata nuovamente, adulta, nella protagonista di Soglia d’amore, racconto asperrimo e ossimorico di disfacimento, rinascita e stupore, in cui una cinquantenne “piacente, come si dice”, si confronta con il corpo ancora ribollente di umori di una suocera alla soglia della morte e indugia dubbiosa sulla definizione dell’amore.
In questo testo di Pareschi ho trovato una delle più veritiere scene di sesso coniugale che abbia mai letto, una descrizione straordinariamente matura dell’orribile bellezza della consuetudine:

“Hanno armeggiato nel buio della stanza, mescolato i loro fiati odorosi di dentifricio – quello di Giulio un po’ ulceroso – la stoffa dei pigiami – flanella Marisa, cotone Giulio — odori e umori risaputi che il letto cova e rilascia ad ogni smuoversi di coperte.
Hanno strofinato e leccato, strizzato e allargato, pizzicato e impugnato, con metodico amore. Si sono concentrati, spremendosi le meningi e continuando a incastrarsi, ciascuno pescando scampoli di pornografia privata dalla propria testa, girandole di culi lisci dilatati Giulio, generici orifizi luccicanti Marisa. Poi Giulio è venuto con una serie crescente e ritmata di emissioni d’aria, grandi boccate sonore un po’ doloranti, come di sforzo. Marisa, a cavallo di Giulio, ha finito come una furia, come se strappasse qualcosa, facendo cozzare le pelvi contro quelle di lui, facendogli male. Poi è smontata e ha aspettato ferma il rigurgito rancido tra le cosce, il rivolo estraneo, tiepido e poi subito gelato che le avrebbe incrostato la pelle come una filigrana.”

L’anno scorso, in occasione della morte di Doris Lessing, Pareschi ne ha scritto un ricordo talmente onesto che trasudava affetto in ogni lettera. Ha descritto una donna socialmente poco piacevole, dal comportamento al limite (ancora la soglia: tra ciò che si può tollerare e ciò che diventa tollerabile solo se si ricorda costantemente la grandezza di chi pratica un comportamento scomodo), che abitava in una “assurda casa di Hampstead, con l’odore di urina di gatto così forte da dare la nausea, il disordine pazzesco, il figlio psicotico che vive con lei, i divani sfondati”; propugnando nel finale dell’articolo una preziosissima indicazione di libertà:

“Era piccola, più piccola di me che già lo sono, con una grande testa regale, e bellissime, profondissime rughe. Sapeva chiaramente quanto valeva, e non faceva niente per nasconderlo [il corsivo è mio]. Non era simpatica, e non fingeva di esserlo. Non ricordo di averla mai vista sorridere. Era già nella Storia, dura come una pietra, e non credo che avesse paura.”

Ho scritto questa lunga introduzione perché la ritenevo necessaria per delineare il percorso coerente di Monica Pareschi, fino alla raccolta che uscirà domani per Italic Pequod, È di vetro quest’aria: sette racconti, compresa una riedizione di Soglia d’amore (gli altri titoli sono Il dono, Corpo a corpo, Il progetto, Solo un momento, Una guerra da bambini, Come in autunno sul boulevard).

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Click click click per vedere la copertina del libro di Monica Pareschi

Vi troviamo bambini acidi, sperduti, turbati dai bisbigli misteriosi e dalle porte chiuse, cifra del mistero rappresentato dalla vita segreta dei genitori:

“A tavola stasera c’è sempre un silenzio nemico, odore d’arrosto e di ricatto, rughe in mezzo agli occhi, colpi di tosse, posate che urtano i piatti, fragore attutito di battaglia. Dopo un po’, mentre sono già a letto, dalla camera dei miei genitori arrivano voci soffocate, il ritmo urgente della richiesta e infine, sibilante e rabbiosa, una lunga sequenza di no no no. Il giorno dopo mi portano dai nonni, due giorni dopo nel pomeriggio mio padre viene a prendermi e torniamo a casa. Mia madre è chiusa in camera, io vado a chiudermi nella mia. Più tardi incontro mio padre in corridoio, preceduto dal suo odore di sigaretta e giornali, e cerco di sfuggirgli. Ma lui si china su di me, mi trattiene per le spalle, e senza guardarmi mi dice in fretta: ‘La mamma è molto triste in questi giorni, devi starle vicino’. Io mi divincolo e proseguo per il corridoio e penso non si dicono cose del genere, non a un bambino”.
Una guerra da bambini

E donne alle prese con adulteri senza speranza, praticati con metodo:

“È il pomeriggio di un giorno feriale e sta andando a trovare il suo amante. Di solito lo raggiunge in treno nella città dove abita, che è a un’ora scarsa dalla sua. Si vedono di rado, sempre il pomeriggio. Due o tre ore al massimo. Lui sta con un’altra e lei sta attenta a non mettersi idee in testa. La gente dice che in questi casi c’è un patto non scritto, soprattutto a una certa età. Alla loro, di età, è buona norma fare l’amore, ogni tanto. Non c’è urgenza ma si sa che fa bene, aiuta a sentirsi vivi in mezzo a tutte le grane della vita. Per l’incontro deve organizzarsi in anticipo. Preparare la cena per la sera il giorno prima, lasciare istruzioni alla colf e a sua figlia perché a una certa ora accenda il forno. Dare disposizioni in studio, perché sarà assente tutto il giorno. Il cellulare in modalità vibrazione la avvertirà se ci sono imprevisti. La mattina si lava i capelli sotto la doccia, controlla lo smalto sulle unghie dei piedi e mette la crema per il corpo. Sceglie intimo e vestiti con cura, ma sempre nel suo stile sobrio perché non vuole rendersi ridicola. Con un rettangolo di carta igienica tampona l’eccesso di rossetto. Sorride al primo scatto della serratura. Si guarda.”
Come in autunno sul boulevard

Con questa raccolta, primo punto d’arrivo di un’opera di cui si auspica un celere rafforzamento quantitativo (Monica, scrivi di più), l’autrice conferma un talento speciale per le parole, in parte dono e in parte frutto dell’estenuante allenamento a tradurre e filtrare la parola altrui.
I racconti di Monica Pareschi vanno letti e in particolare vanno regalati alle ragazze. Non so pensare a una scrittrice contemporanea più soavemente spietata e utile, piena di grazia nel raccontare il sublime abominio dei corpi, netta nel raccontarci che è meglio non raccontarsela.

Monica Pareschi, È di vetro quest’aria, Italic Pequod, Ancona 2014, 120 pagine, 15 eurini ottimamente spesi

L’autrice
Monica Pareschi vive a Milano, dove traduce e lavora come editor per diverse case editrici. Ha tradotto, tra gli altri, Doris Lessing, James Ballard, Bernard Malamud, Willa Cather e Shirley Jackson. Editor della collana “Le Grandi Scrittrici” di Neri Pozza, ha pubblicato di recente una traduzione di Jane Eyre.


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Il grande tabù. Giacomo Agosti, “Doppiatori”

IMG_2881Per le prime pagine di Doppiatori si procede con fatica: tutto vi sa di oscuro, ellittico, involuto. Sono pagine irritanti, in cui il lettore vive con dispetto la reticenza dell’autore e si chiede perché e vorrebbe mollare e mandare chi ha scritto al suo destino.
Giovanni, però, il “superbambino della classe accanto”, GiovanniGiovanniGiovanni c’è da subito e ci sarà sino alla fine, come una sorta di pressa crudele che incombe. Giacomo, “la sposina senza nome di un lord inglese che ha perso la prima moglie”, è il fratello minore di Giovanni e fa pensieri da gran signora:“Penso a un vestito da gran sera per il momento del naufragio.”
La difficoltà di ricostruzione di un filo, la difficoltà di lettura termina quando Giacomo rende esplicita l’omosessualità di Giovanni – “Perché non dico agli amichetti che entrambi [Giovanni e la ragazzina Paola, compagna delle medie] leggono una collana di libri per ragazzine intitolata Kitty – i libri da passeggio?” – e quasi con dispetto manifesta anche la sua – “[…] un grande cazzo si merita un grande pensiero.”

“Il pompino che irrompe nella mia testa di quattordicenne, chiude magicamente il cerchio. […] Dall’altra parte, il pompino esplicita il mio desiderio di tornare ad essere allattato, e – perché no? – ingravidato. Il problema è che mamma è perentoria nel farmi seguire la strada verso il cazzo di Giovanni (‘vuoi vedere com’è fatto un uomo? Guarda lui’), così che io inizio a pensare che far l’amore con mio fratello non sarebbe poi tanto male.”

Persino nella considerazione di altri omosessuali, partner occasionali di Giacomo, emerge il confronto con il fratello dal piglio più risoluto:

“Non potresti essere frocio come tuo fratello, che almeno sembra più maschile?”

Giovanni è lo scoglio, l’ostacolo, la porta chiusa. Giovanni-Norah Elmer, Giovanni-Raffaella Carrà, Giovanni-fighetta, Giovanni-Giovanna, quasi mai totalmente accessibile. Un fratello-specchio alieno e segreto che a un certo punto si separa quasi del tutto dal fratello minore, il quale parlando di sé al femminile scrive:

“Rinnegata e felice, io scivolavo da un uomo all’altro […]”

Poi in qualche modo si ricompone il triangolo Giovanni-Giacomo-mamma, con l’indebolimento e poi il tumore di lei. Giovanni prende tutto ciò che sente essergli dovuto, soldi e casa, ma lo vuole dalle mani di Giacomo, che in un’ultima trionfante visione assimila la richiesta di Giovanni a una puerile richiesta d’incesto e si prende la sua vendetta negandoglielo.
I soldi sono potere e il cazzo è potere. Alla fine i ruoli si invertono: suo fratello, dice Giacomo, non lo guarda più come una checca. È una rimascolinizzazione che imprevedibilmente dà a Giacomo un potere che agli occhi del fratello non ha mai avuto. I soldi sono potere e diventano il cazzo che Giovanni desidera da lui. L’ultimo atto di un ossimorico sodalizio che non conclude né guarisce, ma al contrario esacerba la progressiva opera di ostensione delle miserie di un femminile assai stereotipico inseguito nell’attraversamento grammaticale del genere; nelle ultime pagine i fratelli sono sorelle, si identificano e si attribuiscono identità di attrici o altre celebrità. Una modalità che non ti aspetti in due fratelli di buona famiglia, un modo di pensare e interloquire più coerente con un mondo di impiegati e parrucchieri.
Ostensione, si diceva: l’esibizione, la progressiva messa a nudo dei corpi sbagliati, ma senza suadenti spogliarelli, ma strappando i panni. Lo scandalo di queste pagine sta proprio nella esibizione integrale di una sublime stronzaggine borghese. Lo scandalo sta nei nomi, nomi veri di persone esistenti e riconoscibili.
Né sussurri, né voci di corridoio, ma una voce chiara che si agita tra desiderio di vendetta e volontà di cronaca.

courtesy clangroup.it

Giacomo Agosti: attore, regista, scrittore, storico dell’arte. Courtesy clangroup.it

Una chiosa
La vicenda editoriale di Doppiatori è curiosa. Proposto a diversi editori, apprezzato da diversi editor, il racconto non arriva mai alla pubblicazione. Alla fine l’autore decide di fare da sé e si affida a un grafico che progetta e impagina un volume dalla curiosa forma allungata, con una copertina giallo vivo e risguardi verde fondo, e a uno stampatore che produce una piccola tiratura. Perciò di Doppiatori non esistono molte copie, e chi scrive si ritiene fortunata per aver ricevuto un esemplare da una amica. Eppure, ci giurerei, la storia di questo libro non finisce qua.

Giacomo Agosti, Doppiatori – Madama Butterfly, stampato da Tipografia Fabbri, Modigliana 2014, 40 pagine, senza indicazione di prezzo

Giacomo Agosti, qui. Uno dei suoi ultimi lavori è La rondine, di Giacomo Puccini, presentata il 5 aprile di quest’anno a Milano, presso Casa Verdi.

Giovanni Agosti, qui. L’ultima mostra che ha curato è “Bernardino Luini e i suoi figli”, in corso a Milano, Palazzo Reale, fino al 13 luglio 2014.

 


4 commenti

né recensioni né trame_marco missiroli

CL500x350_6560la signora “cose da libri”, si sa, non sta troppo appresso alle nuove uscite. considera la lettura un’attività ultralibera, non riconducibile a eccessi didattici. detesta i maestrini, gli abatini, i volenterosi della diffusione di nobili attività.

e si sa anche che l’universo traccia disegni imprescrutabili facendosi beffa dei nostri esercizi di razionalità. e infatti, come abbiamo raccontato, talora la monnezza, ancorché monnezza speciale, la fa da padrona e l’unica cosa da fare è seguire il flusso. in quell’episodio di serendipity editoriale c’era un marco missiroli del 2012, il senso dell’elefante. che non recensirò, abbandonandomi alla pura emotività del raccomandare ai lettori di leggerlo a loro volta. perché recensirlo vorrebbe dire ri-raccontare il libro senza esserne l’autore e perché le vicende sue sono irraccontabili. ne dirò solo che emana puro affetto del vivere ma che nonostante ciò non indulge quasi mai a sentimentalismi (neanche alla mistica del gay che a volte affligge quando si parla di gay, se è per questo. l’avvocato di missiroli è esemplare) e che alle pagine 220-221 c’è la più muovente descrizione di un suicida che mi sia capitato di leggere sinora:

“Il cappio aveva segato il collo, la crosta di sangue incoronava il viso. La vestaglia era allacciata e il lucido della seta rifletteva i bagliori di una candela, Pietro si avvicinò. La sedia si era rovesciata accanto al cartoncino con la scritta Grand Hotel Riservato Furgone Deluxe. Nel centro una grafia aggraziata, Mazel tov. L’augurio per chi rimaneva.”

ah, ed è sorprendentissimo che un autore di trent’anni, con tutti i cialtroncelli della stessa generazione sua (missiroli è nato nel 1981) che si autoproclamano autori e si pavoneggiano sui social, scriva così bene e così profondo e così lontano dalla sua cameretta, perciò leggetelo e sarete tristi ma anche un po’ felici.

solo per le ragazze all’ascolto:  ma poi, avete visto la foto di marco?


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“Non fate troppi pettegolezzi”: lo presenta Demetrio Paolin a Milano

“[…] credo che nessuna letteratura mondiale abbia mai potuto vantare nel giro di pochi chilometri quadrati la triade Pavese, Primo Levi e Beppe Fenoglio.”

Demetrio Paolin, intervista, in “Sul romanzo”, 17 settembre 2009

coverLa signora “cose da libri” segnala con molto piacere l’uscita di Non fate troppi pettegolezzi, dello scrittore piemontese Demetrio Paolin, dove si parla di Cesare Pavese, di Primo Levi, di Emilio Salgari, di Franco Lucentini e di Torino.

Lo pubblica Liber Aria (qui la scheda editoriale del volume), giovane editore di Bari, che lo ha dotato di una bella copertina dalla grafica a un tempo rigorosa e attraente.

L’autore ha gentilmente concesso a questo blog il permesso di pubblicare un frammento del libro appena uscito, in cui il corpo di Primo Levi e quello di Erich Priebke a confronto ci danno occasione di riflettere su quanto c’è in noi dell’uno e dell’altro.

conaltrimezzi.com

Courtesy conaltrimezzi.com

Paolin e la sua faccia saracena saranno domani alle 18:30 alla libreria Les Mots di Milano per la presentazione del volume. Venite, o lettori, ché Paolin merita: è serio e appassionato, di sobrietà berlingueriana, cliente dell’Oviesse. E, dettaglio non trascurabile, quando cominci a leggere le sue parole vuoi continuare, perché senti che su quella pagina ci sono segni grafici con molto dentro.

“Mi chiedo come fosse il corpo di Primo Levi, come è il corpo di uno che è sopravvissuto a percosse, malattie e torture. Certe volte, leggendo le sue pagine limpide e chiare, il suo ragionare sempre sereno, mi dimentico che è stato un uomo rinchiuso e umiliato. Il suo corpo sarà stato pieno di cicatrici e poco per volta i suoi carcerieri l’avranno disfatto pezzo a pezzo, giorno dopo giorno, tortura dopo tortura. Hanno preso un uomo e l’hanno ridotto a ramo secco. Come si sente un uomo così? Cosa prova quando torna a casa e abbraccia i suoi? Li riconosce ancora? E loro? Oppure è estraneo a se stesso e agli altri? Quali sono gli incubi e le ossessioni che si è portato dietro dalla prigionia? Quando dormiva nel suo letto scattava in piedi al minimo rumore? Avrà sentito un leggero fastidio allo stomaco nei giorni in cui mangiava troppo? Penso al corpo di Levi e al corpo di Priebke. Li accomuno per distinguerli, li metto accanto perché voglio che si veda la differenza. Il corpo di Levi non ci turba. Il giusto non ci turba mai, quello di Priebke è invece odioso, perché ci costringe a dover decidere se esercitare su di lui la pietas o meno. Io il corpo di Priebke lo odio, mentre amo il corpo di Levi. Odio il corpo di Priebke perché mi costringe a rinunciare alla mia cultura, costruita sull’umanesimo. Il corpo di Priebke è fuori da qualsiasi perimetro di civiltà: non è degno di cerimonie funebri, di sepolture o tombe. È degno solo della scomparsa e della sparizione; il corpo dell’SS è l’idea che quel male è presente, e per sempre.

Odio il corpo di Priebke perché mi insinua il dubbio, lo stesso che arrovellava Levi, che lo ha consumato come un veleno silenzioso: ovvero che infine loro, i nazisti, fossero riusciti nell’intento di mostrare il vero cuore dell’uomo, che non è né buono né tantomeno nobile. Provo disgusto per il sorriso di Priebke che ho visto nelle foto e provo disgusto per i pensieri miei sul quel corpo morto, perché hanno a che fare più con la sorda rabbia di Achille e il vilipendio del cadavere di Ettore che non con la religiosa compostezza di Antigone. Provo disprezzo per me che mi dico che del corpo di Priebke bisognava occuparsene da vivo e non ora che è inerte come un sacco di farina. Fatico a definire questo sentire come ‘mio’. Eppure sono io che lo formulo: questo sentimento è me.”

 Il libro

Demetrio Paolin, Non fate troppi pettegolezzi, Liber Aria, Bari 2014, 132 pagine, 10 euro.

L’autore

Demetrio Paolin nasce a Canelli e vive a Torino. Ha scritto alcuni libri e romanzi. Ha appena pubblicato Non fate troppi pettegolezzi [l’understatement che caratterizza queste righe biografiche è di Paolin medesimo]