berlino è tutta un graffito. vi abbondano centri sociali, ragazzi e anziani male in arnese, fighetti e gente impegnata a salvare la natura. “bio” è un suffisso che va per la maggiore. c’è una straordinaria concentrazione di bar, ristoranti e negozi vegetariani, vegani, variamente biologici, un impazzimento collettivo per il naturale. sulle innumerevoli biciclette c’è l’immancabile invito “go green”, un latte macchiato può costare quattro euro e, contrariamente a quanto lo stereotipo suggerirebbe, la città indulge moltissimo alla monnezza: ai primi di gennaio in molte zone della città si stendevano tappeti di botti esplosi e vuoti di bottiglie di vodka, ma anche resti diversi certamente presenti da giorni.
breakfast da tante emma, con la luce cupa
anche nei locali delle zone “alternative”, come kreuzberg, proprietari e dipendenti sono poco inclini al sorriso. c’è qualcosa che tiene a distanza, e non è di certo la lingua.
fa eccezione, in falckensteinstrasse 17 (sempre kreuzberg), eigenzeit, un bel bistrot la cui proprietaria è affabile e autenticamente gentile. nel piatto del breakfast, davvero delizioso, c’erano:
due panini freschissimi;
due tipi di formaggi, di cui a foggia di garofano;
burro;
marmellata;
pomodoro affettato;
fette sottilissime di zucchina;
un ciuffo di rosmarino;
un alchechengio ,
completati da un ottimo caffè e da una benevola incursione della signora volta ad assicurarsi che tutto andasse per il meglio.
la monumentalità di certe zone della città non richiama né grandeur né orgoglio municipale. a berlino, praticamente in ogni bar o ristorante o luogo di ristoro, le candele sono accese a qualunque ora, come in un memoriale permanente. le luci sono prevalentemente fioche, il che contribuisce a una certa qual aria di cupezza.
unica graditissima eccezione, il ramones cafè, un luogo apparentemente truce dove ti servono però chai latte e torta alla banana e ciliegia, e il tatuatissimo efebo /barista ti serve con una timida gentilezza che ti spingerebbe a baciarlo in fronte.
berlino è una bella cosa che difficilmente farò ancora.
i 275 anni della staastsoper berlin
appendice: cose berlinesi sparse
louis eysen, la madre dell’artista, 1877. opera conservata nella alte national galerie. bella, la libreria, no?
lo strepitoso segantini della alte national galerie: il rosa del cielo vale l’intera visita, non esagero
e come chiamare altrimenti un caffè?
nei dintorni della berlinische galerie
all’ingresso della berlinische galerie
alla berlinische c’era una gigantesca retrospettiva di jeanne mammen, pittrice e illustratrice invisa al regime nazista
ancora jeanne e, qui sotto, un suo puntuto autoritratto
hummus and friends in oranienburgerstraße 27, quartiere ebraico
dove praticando la flânerie si approda nel paese delle biciclette, vi si scopre una sorprendente penuria di librerie e si va a finire a cabot cove
ferrara la dolce
a vederla dall’esterno sembra la capitale della tranquillità. ritmi pacifici, la maggioranza dei negozi chiusi durante l’ora di pranzo, strade di media lunghezza con perpendicolarine color cotto (a ferrara, in effetti, è quasi tutto color cotto), perlopiù suggestive e quasi tutte solitarie.
piazza trento e trieste; sul fondo, palazzo san crispino, sede della libreria ibs+libraccio
se si passeggia verso il tramonto nei pressi di piazza trento e trieste, in pieno centro, andando verso via mazzini, nella zona della virtuale zona ebraica ferrarese – dall’esterno è persino difficile accorgersi della presenza della sinagoga, che invece c’è, anzi ci sono e sono tre: l’oratorio fanese, oggi utilizzato per i riti, l’ex tempio italiano e l’ex tempio tedesco – si viene colti da una sorta di nostalgia di medioevo, da un senso di attesa per qualcosa che non arriverà.
a ferrara può capitare di assistere a uno scambio di saluti lunghissimo, con i salutanti che parlano mentre camminano in direzioni opposte, ad alta voce, e le parole, vieppiù attutite nella scia dei passi che si allontanano, non perdono un grammo d’affetto, e sono molte, non sfumano nella distrazione, buonasera, buonasera, come sta, non c’è male, ma la mamma poi si è ripresa, sì, ringraziando il cielo, allora me la saluti, certo, non mancherò, arrivederci, arrivederci. una delle parole più belle che conosca, bonomia, benevola e rotonda, sovrintende alla città come sua cifra: tu chiedi un’informazione e una signora ti mette una mano sulla spalla mentre ti dà le indicazioni di cui hai bisogno; vai a palazzo bonacossi e la signora paola nascosi ti accoglie con grande gioia, ti riempie di notizie e dépliant, ti offre “una caramellina” che sta con le sue compagne in un cestino a disposizione del visitatore. finita la visita, paola ti viene incontro e ti chiede se hai bisogno del bagno, perché, dice in tono complice, “serve anche quello”. un’ospitalità squisita.
palazzo bonacossi, serie di erme in marmo rosso. il quattrocentesco palazzo ospita il museo riminaldi, raccolta di arredi, bronzi, dipinti composta dal cardinale gian maria riminaldi (1718-1789)
la manina paffuta del genio della forza
bottega romana, litoteca, vii secolo
il collezionista
purtroppo dopo il terremoto del 2012 le sale visitabili di palazzo schifanoia si sono ridotte a due, quella dei mesi e quella degli stucchi con il refuso. c’è di buono che a schifanoia e a bonacossi si accede con un unico, economicissimo biglietto.
ferrara offre cappelletti e cappellacci ovunque, e i negozi sono pieni di zucche: qui lo spirito di halloween deve entrare con grande naturalezza, favorito dall’abbondanza di cucurbitacee, dalla morbida tenebrosità post-crepuscolo e da quell’impressione di scarso popolamento che rende ovattata la città.
il castello, con le acque vive che lo circondano, è tutt’altro che imponente, come del resto gli altri edifici cittadini. tutto concorre alla costruzione dell’abusata espressione “a misura d’uomo”. e a proposito di luoghi comuni, è proprio vero che il mezzo di locomozione preferito, e usatissimo, dei ferraresi è la bicicletta.
questo strumento, contrariamente a quanto accade a milano, si inserisce con grande naturalezza nel contesto cittadino; se a milano le piste ciclabili sono raccogliticce, collocate maldestramente dove si è potuto, e i ciclisti – con quella loro eterna aria di parvenus convinti di essere salvatori della terra – mal si accordano al circostante, a ferrara i velocipedisti sfrecciano con splendida spontaneità sostanziata da una lunga tradizione. la riprova è che a ferrara le biciclette con gli imbarazzanti cestini decorati con finte verzure semplicemente non esistono. le signore mettono a posto le catene in autonomia, indossando piumini invece che manti in lana cotta, e non esistono negozi fighetti sull’esempio dell’upcycle milano bike café.
e che dire dei writers ferraresi? la città è talmente poco metropolitana che, almeno in centro, scrivono solo sulle pattumiere: un altro atteggiamento virtuoso che contribuisce alla bellezza, e salva da scempi di imbecilli che non sono banksy ed eiaculano (precocemente) le proprie letterine ovunque gliene colga l’uzzolo.
e le librerie? sono pochissime e poco degne di nota, hélas, a parte l’ibs+libraccio di piazza trento e trieste, nobilmente collocata nel palazzo san crispino dopo che l’architetto paolo arveda, come recita un opuscolo in distribuzione presso la stessa libreria, dopo i diversi progetti dei suoi predecessori, propose “un nuovo progetto complessivo per i piani della Loggia, maggiormente adeguato alle sopraggiunte esigenze legate all’insediamento della libreria, oggi ibs+libraccio”. e all’interno del porticato di san crispino, dal 1770 al 1836, risiedette “la reale”, corpo di guardia al ghetto ebraico, che comincia proprio in quel punto per inoltrarsi verso via mazzini.
in assenza di adeguati competitor, la libreria in città fa la parte del leone: è ampia, propone presentazioni al ritmo di un paio alla settimana ed esercita un sostanziale predominio, forse anche per un’offerta generosa che la vede aperta fino alle 23:30 nel fine settimana e per la possibilità di trovarvi nuovo, usato, qualche prima edizione e anche una scelta di ebook. il 4 novembre, per ora programmati fino al 25, comincia una serie di incontri intitolata “libraio per un giorno”, nel corso dei quali, leggiamo, il relatore “racconterà ai presenti il suo bagaglio di letture con auto-ironia e spontaneità: i classici che lo hanno formato, ma di più, i titoli che non abbandonano il suo comodino la notte, dai quali non si separa mai”.
dopo una rapida visita a palazzo diamanti, i cui diamanti non si vedono poiché è in restauro, mrs. cosedalibri ha raggiunto luoghi più defilati, svoltando a sinistra e camminando fino a via delle vigne, al fondo alla quale si trova il cimitero ebraico della città, l’antico orto degli ebrei compreso nella rinascimentale addizione erculea.per entrare in questo verdeggiante giardino dell’aldilà bisogna suonare un campanello: un atto banale, che nel silenzio e nella solitudine perfetti di quel tratto finale di strada, prima dei campi, si ha quasi paura di compiere. ad aprire è una gentile custode ottantenne, che dopo avermi salutata e invitata a firmare il registro dei visitatori mi riferisce, per scusarsi del ritardo nel rispondere, “stavo guardando la signora in giallo ma poi mi sono addormentata. ecco, esca da questa porta. la tomba di bassani è alla sua destra alla fine del muro. è in bronzo, non può sbagliare”.
bassani è onorato con un piccolo monumento di arnaldo pomodoro posto all’interno di un semicerchio. così lo scrittore descrive il cimitero in cui riposerà, nel giardino dei finzi-contini, riflettendo sul destino di coloro che non vi sono sepolti: “Io riandavo con la memoria agli anni della mia prima giovinezza e a Ferrara, e al cimitero ebraico posto in fondo a via Montebello. Rivedevo i grandi prati sparsi di alberi, le lapidi e i cippi raccolti più fittamente lungo i muri di cinta e di divisione e, come se l’avessi addirittura davanti agli occhi, la tomba monumentale dei Finzi-Contini. E mi si stringeva come non mai il cuore al pensiero che in quella tomba uno solo l’avesse ottenuto, questo riposo. Infatti non vi è stato sepolto che Alberto, il figlio maggiore, morto nel ‘42 di un linfogranuloma; mentre Micòl, la figlia secondogenita, e il padre professor Ermanno, e la madre signora Olga, e la signora Regina, la vecchissima madre paralitica della signora Olga, deportati tutti in Germania nell’autunno del ‘43, chissà se hanno trovato una sepoltura qualsiasi”.
lapidi e scritte, nell’orto degli ebrei, sono tra le più varie. alcune minuscole,
alcune riportanti le semplici iniziali del defunto,
alcune assai commoventi nelle loro manifestazioni di affetto da parte dei congiunti.
nora era una bella persona
le favole non finiscono mai
soffermarsi è stato molto bello. l’erba era intrisa di rugiada, nonostante splendesse il sole. molte tra le lapidi più vecchie andavano completando il loro processo di reintegrazione con la natura, semiaffossate nel suolo e ricoperte di erbe, muschi, foglie secche. un cimitero ad alto tasso di ossianesimo.
dopo la visita sono rientrata dalla porta per la quale ero uscita e ho cercato la signora, ma nulla: l’ho immaginata negli abissi del sonno, o in quelli di cabot cove, perciò ho aperto la porta principale e l’ho richiusa alle mie spalle senza far rumore. con l’animo colmo di letizia mi sono apprestata a ripartire verso la città della grande editoria, recandomi alla stazione ferroviaria. e la stazione, come è la stazione di ferrara?
come la maggior parte delle altre, la stazione di ferrara fa schifo, infestata da individui di dubbia reputazione, perdigiorno con preferenza per lo spaccio come metodo di sopravvivenza e atteggiamenti da rapper de noantri. non vengono dagli usa, tuttavia, e non sono kanye west.
ma per fortuna le bellezze di ferrara ancora sopravanzano il degrado:
qualche artigiano lavora ancora per la strada;
ci sono le finestre di vetro inciso;
il linguaggio è affettuoso anche nelle comunicazioni condominiali;
i preti portano ancora il cappello modello saturno;
alle poste di viale cavour c’è la sala di scrittura;
dove si incontra un vecchio amico nel bel mezzo di un affresco, si va a piedi dall’uno all’altro arrondissement e si approda in un giardino di delizie
i lionesi sono perlopiù pacifici e gentili: tutti coloro a cui ho chiesto indicazioni mi hanno risposto volentieri e in maniera molto circostanziata, e molti mi hanno accompagnata per un tratto assicurandosi che andassi nella direzione giusta.
durante le mie lunghissime passeggiate non ho mai provato disagio o sensazione di pericolo: sarà la lunga ombra del capitano chérif, ma la città sembra piuttosto tranquilla, fatti salvi alcuni inevitabili balordi che tuttavia non paiono comprometterne la sostanziale paciosità.
la bellezza e la calma dei lungofiume verso ora di pranzo, quando turisti e locali perlopiù mangiano ed è facile trovarsi quasi da soli a passeggiare, sono impareggiabili. le attività serali / notturne degli avvinazzati che là vanno a gozzovigliare dopo il tramonto sporca in alcuni tratti la maestosità delle acque: molte sono le bottiglie vuote sulle rive, qualcuna addirittura galleggia sul fiume.
lungo la saona, l’angolo formato da rue de la martinière e da quai saint-vincent, nel primo arrondissement, ospita il bellissimo fresque des lyonnais.
realizzata dagli artisti della cité de la création, l’opera cita e raffigura ventiquattro personaggi della cultura di origini lionesi (si veda qui per l’elenco dei personaggi).
andré-marie ampère
antoine de saint-exupéry
quale non è stata la sorpresa di mrs. cosedalibri nel vedere rappresentato anche il suo idolo bernard pivot, l’autore della televisione culturale francese, l’anima di “apostrophes” e di “bouillon de culture”! per chi comprende il francese, qui si può guardare una bella intervista a bernard.
bernard pivot, insuperato giornalista culturale
da rue de la martinière, passando per il quai saint-vincent, si approda all’immensa place bellecour, gigantesco nido di delizie letterarie. collocata tra saona e rodano, nel secondo arrondissement, è una piazza immensa, i cui giardini sono attrezzati con chioschi di ristorazione e panchine, e tutto attorno alle due fontane sono disposte sedie per chi desidera rilassarsi nei pressi dell’acqua, facendosi cullare dal rumore degli zampilli.
al numero 29 della piazza sorge la libreria decitre, parte di una catena e risalente al 1907, che mrs. cosedalibri ha visitato in piena rentrée scolaire: vasti settori dedicati a letteratura, scienze umane, turismo, arte, storia, religione, infanzia, gialli e fumetti, libri scolastici e un assortimento fiabesco di cancelleria. oltre a una piccola fornitura di inchiostri colorati per le sue stilografiche – nei colori radiant pink e harmonious green di waterman –, mrs. cosedalibri ha acquistato tre taccuini, tutti giapponesi, tra cui il favoloso life: tutti a righe, con una carta splendida, promessa di scrittura assai scorrevole. bisognerà adesso provarli con le stilografiche e capire se si contemperano con la grafite delle matite palomino.
dove, all’ingresso di una libreria fisica, si celebra l’integrazione tra la lettura su ebook e quella su libri di carta: tea, la soluzione per vendere libri digitali in libreria
la sezione cancelleria
i taccuini giapponesi
qui e sotto, caccia al tesoro nella libreria decitre: indovinare il titolo dalla citazione, con l’indizio del libraio
la sacra teca della pléiade
1,46 eventi al giorno in libreria
creare una casa in libreria: un fiore su un tavolo
in questa piazza assai libresca, in cui trovano posto anche le misteriose éditions baudelaire (solo su appuntamento, recita la targa: che vorrà dire?) troneggia la statua del lionese antoine de saint-exupéry, che ci guarda dall’alto in compagnia del piccolo principe.
place bellecour non finisce, ma si trasforma senza soluzione di continuità in place saint-antonin, dove al numero 5 si trova l’expérience, una libreria piena di fascino specializzata in fumetti, che vende anche stampe, action figures e il resto collegato al settore.
il gigantesco bouquet che conclude place saint-antonin e segna il confine simbolico tra la piazza e il fiume rodano
la grande synagogue di lione è un edificio neobizantino eretto dall’architetto abraham hirsch intorno al 1864. sorge sul quai tilsitt, sulla riva sinistra della saona.
la grande synagogue vista dal quai fulchiron, in una giornata uggiosa
la mezuzah della grande synagogue: si prova grande tenerezza per questo oggetto che, in contrasto rispetto alla magnificenza del resto, appare consunto dall’uso e parla di un uso slegato dalla forma e dalla necessità di decoro
la strana impressione, rispetto alla mezuzah qui sopra, dell’oggetto divelto, non si sa se per vandalismo o cambio della destinazione d’uso, della sinagoga neveh chalom in rue duguesclin, nel terzo arrondissement
come barbès a parigi, il quartiere guillotière è pieno di spazzatura e di odore di urina e di spezie, nonché di nullafacenti di un sesso che si fanno le unghie e dell’altro che si fanno i capelli.
nonostante alcuni volenterosi che si danno da fare sui blog e sulle guide di viaggio per contrabbandare questa fetta neanche tanto periferica di lione come un posto cool, il luogo è davvero orribile: teorie di parrucchieri ed estetisti, con figuri che sostano sulla soglia e paiono in attesa di qualcosa, ma attendono parecchio, perché quando si ripassa sono ancora lì, giovani maschi pasciuti e perdigiorno, giovani femmine che chissà perché ti aspetti gravide da un momento all’altro, sempre troppo presto.
turpi commerci in place péri
questo degrado, che sembra fatale quando in qualche luogo si trovano a vivere persone provenienti dalle afriche tutte, trova il suo atroce culmine in place gabriel péri: un posto iperdickensiano, pieno di gente che litiga, vende, spaccia, chiede l’elemosina; che vede tra l’altro intere famiglie di zingari sedute per terra, le mogli incinte che ricordano bovini nervosi, gli uomini torvi, i bambini urlanti. scene che fanno capire quanto sia pericoloso, ma anche antiestetico, perdere il controllo di parte della città da parte di chi dovrebbe governarla.
il cuore, tra place gabriel péri e cours gambetta, si salva solo contemplando gli affreschi del mur du cinéma.
realizzato nel 1996, il mur du cinéma rappresenta una serie di film girati a lione. qui sopra, la messa in scena del primo film con uno dei fratelli lumière
la piccola, struggente vetrina di una ex pellicceria alla guillotière, ora sede di un ristorante asiatico
in rue de brest, nel secondo arrondissement, c’è il tabaccaio “le maryland”. ah, le memorie dell’università, il ricordo di pétrus borel! mi convinco che il proprietario del negozio è un lettore di questo infernale minore francese che ho imparato a conoscere al tempo degli studi.
pétrus borel, “il licantropo”, “stralunato eroe di alcune imprese fragili e concluse” – secondo la definizione che ne dà il mio antico professore di francese, monsieur bruno pompili, nel suo il segno del licantropo (introduzione a pétrus borel – opera polemica, bari 1979) –, fu un eterno dissidente e un arguto fallito. repubblicano faute de mieux, in piena monarchia di luglio ebbe a dichiarare: “sono repubblicano perché non posso essere caraibico; ho bisogno di un’enorme quantità di libertà; me la garantirà, la repubblica?”
e dopo aver definito la propria un’epoca in cui al governo sedevano ottusi contabili e mercanti d’armi, e il re di francia un uomo il cui motto recitava “sia lodato dio, e anche i miei negozi!”, pétrus vagheggiava: “fortuna che per consolarci di tutto questo ci resta l’adulterio! il tabacco del maryland! e del papel español por cigaritos.”
a taranto, in via di palma, c’è il negozio di vestiti blackout che per l’allestimento estivo ha scelto macchine per scrivere e libri, con piacevole effetto.
i fiumi nella poesia e nella prosa, che frescura! se non riusciste a rubarlo da blackout, sappiate che è disponibile su maremagnum
a taranto quello della birra raffo è un vessillo che garrisce gloriosamente al vento dei due mari dal 1919, anno in cui vitantonio raffo fonda la sua “fabbrica di birra e ghiaccio”. bevanda prediletta dai tarantini, viene consegnata in gran copia laddove si sfornano pizza, panzerotti e altri prodotti da forni, e bevuta moltissimo al mare, sulle molte spiagge libere della litoranea.
potenziali consumatori di birra raffo su spiaggia libera tarantina
bancale con confezioni di birra raffo in consegna nella città vecchia
in città vecchia l’insegna di una botteguccia ne espone ancora l’antico marchio.
vicoletto mercanti: vi si cammina, a fatica, in fila indiana
la dolce resurrezione del borgo antico
la città vecchia di taranto, un’isola circondata da due mari e unita alla parte nuova da due ponti, vive un suo momento di gloria. entro il 2018 si apriranno i cantieri che daranno il via a una ristrutturazione profonda, dopo gli esiti di un concorso internazionale di idee promosso per il recupero di quest’area preziosissima.
prima delle istituzioni, in un’ottica di recupero e valorizzazione prevalentemente umana, erano arrivati i ragazzi della casa occupata di via garibaldi con la loro biblioteca popolare – aperta a dibattiti e corsi, con particolare attenzione al doposcuola per i bambini del quartiere –, eredi di salvatore gigante aka moustaki, il “candido popolano della città vecchia”, da sempre impegnato per la rinascita dei luoghi in cui era nato, eroe popolare celebrato con graffiti sui muri del borgo.
una piccola gita in città vecchia, provenendo dalla città nuova
dalla piazza del municipio, oltre il ponte girevole, ci si immette in città vecchia passando accanto all’università, una parte ristrutturata di recente, per poi arrivare, svoltando a destra, nella principale via duomo.
qui il passato vive in negozi che non si trovano in nessuna parte della città nuova – un misto di deodoranti, pile, souvenir, la prova ultima che i cinesi da questo punto di vista non hanno inventato niente, neanche la gestione familiare, che prevede la presenza in negozio di madri, figli, parenti diversi e qualche immancabile amico che fa compagnia, seduto su una sedia sempre pronta.
i prezzi dei souvenir sono assai incerti; la loro definizione necessita, ha necessitato nel caso dell’acquisto di chi scrive – un carabiniere e un personaggio tipico della processione pasquale dei misteri –, di un consulto madre-figlio che termina con la netta sensazione che i prezzi siano stati gonfiati.
nicola giudetti davanti al suo laboratorio di via duomo
procedendo verso la cattedrale, sulla sinistra, si incontra la bottega di nicola giudetti, pittore e custode di una serie di attrezzi da lavoro ormai in disuso, che nel suo spazio accoglie bambini e ragazzi cui insegna l’arte della pittura e della microscultura.
il maestro giudetti mostra l’uso di un attrezzo anticamente adoperato per pulire le fave secche
a ottant’anni suonati, il maestro è ancora una colonna portante della città vecchia. con altri nobili vegliardi, e senza aiuti istituzionali, ha risistemato e riaperto la chiesa sconsacrata di santa maria della scala, riconvertendola in spazio per mostre e altre manifestazioni.
il modellino della processione dei misteri, eseguito dai bambini della città vecchia sotto la guida di nicola giudetti
procedendo, sempre sulla sinistra, si incontra una copisteria/cartoleria che, oltre ad avere uno straordinario soffitto a volta, propone una linea di cancelleria economica piuttosto interessante, la hi-text (digressione-cancelleria di mrs. cosedalibri, probailmente di scarso interesse per il lettore, che la scuserà) .
il cuore del cambiamento si trova però più avanti e si chiama “liberamente”, la cartoleria/copisteria/galleria d’arte e microlibreria di federica, una ragazza con i capelli molto ricci e un progetto molto chiaro: far funzionare il suo negozio/polo culturale nel luogo in cui è, peraltro in architettonica sinergia con il caffè letterario “cibo per la mente”, che ha sede di fronte.
federica di “liberamente”. alle sue spalle, in alto, una serie di vinili recuperati e decorati da giovani artisti; a destra, sullo scaffale, una bella scelta di cancelleria
murale di fronte all’ingresso di “liberamente”, particolare con libro-insetto
“cibo per la mente”: il santino di alda merini
da “cibo per la mente” si prende il caffè, si mangia, si legge e si ascolta musica. il caffè lavora anche di concerto con la principale libreria della città, mandese, per organizzare presentazioni di libri.
il duomo di san cataldo è come sempre bellissimo, con i soffitti a cassettoni e la sontuosa cappella dedicata al santo irlandese, nelle cui nicchie si trovano anche santi lettori.
l’organo nella cappella dedicata a san cataldo all’interno del duomo
il santo d’argento
al duomo si arriva non prima di aver visitato la pasticceria e gelateria aiello: gelato artigianale, tra cui l’eccellente gusto anguria, cassatine freschissime e pasticceria secca alle mandorle dal 1930.
per il pranzo si imbocca la via di mezzo per scendere alla marina, in via garibaldi, e raggiungere la chiesa di san pasquale, che sul retro cela una strada ove ha sede l’apoteosi gastronomica: da “mena mena me’”, una trattoria con tre tavolini dentro e tre fuori, dove si mangia quello che c’è, e quello che c’è è il pesce che angela sceglie direttamente dalle barche che arrivano alla marina dopo la pesca: che si trasforma in impepata di cozze, cozze arraganate, insalata di polpo, spaghetti alle cozze, fritto misto di paranza.
niente dessert, ma conclusione con limoncello ghiacciato. il tutto di fronte a un palazzo in rovina, simbolo di decadenza e rinascita allo stesso tempo, sul muro diversi graffiti a parlare di futuro, un bel futuro che si avvicina, che giovani cuochi, giovani cartolai, vecchi e giovani negozianti della città vecchia vanno propiziando con squisita energia.