cose da libri

dove si esplorano parole e si va a caccia di idee


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Omero non deve morire

IMG_0238Sabato 30 gennaio il liceo classico Omero di Bruzzano ha compiuto cinquant’anni e ha organizzato una festa bellissima per allievi, ex allievi, insegnanti.

IMG_0611L’Omero somiglia a un vecchio, affettuoso condominio anni sessanta, quando ancora andare dal vicino a chiedere un uovo non era cosa strana.

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Questi studenti non trasportano uova, ma le vettovaglie per l’aperitivo

Collocato in un punto periferico di Milano, strategico per i paesi che gli stanno attorno, l’Omero è una scuola di eccellenza, per la qualità professionale e la competenza umana delle persone che vi lavorano. Entrare all’Omero non è come entrare, per dire, al Manzoni: all’Omero le mura non respirano storia ottocentesca, ma avrebbero piuttosto bisogno di una buona manutenzione, così come l’intero edificio. Che però si va progressivamente svuotando di classi, e viene lasciato a sé stesso e la manutenzione non la riceve. Qui la buona scuola è un’ottima scuola che le persone coinvolte realizzano da sé.

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La professoressa Belardinelli insegna matematica, ed è felice

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La professoressa Nava insegna scienze, è vicepreside, ed è felice

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La signora Bertocchi sovrintende alle cose della scuola, ed è felice.

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Studenti felici, e anche belli

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Studentesse felici, e bellissime

I locali erano stracolmi di gente accorsa da ogni dove – c’era chi aveva guidato per trecento chilometri pur di essere presente.

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il greco

Il greco è tutto: e grazie, professor Savino

C’erano le classi aperte con le pareti piene di immagini del passato e dell’oggi, i banchi pieni di libri pubblicati da chi ha insegnato o insegna, o ha imparato all’Omero: tante traduzioni dal greco del professor Ezio Savino, che abita l’Olimpo dei personaggi che hanno costruito il carattere del liceo ed è tornato all’Olimpo l’anno scorso, dopo una carriera appassionata, esemplare – sua l’imperitura frase “Il greco è tutto”, eternata in una targa a lui dedicata, che campeggia su una parete; libri di testo curati da professori in carica o che lo sono stati; la poesia di Marilena Renda, che all’Omero insegna inglese (qui trovate la sua biografia e qui un articolo con estratti dei suoi testi); i libri di Francesco Gallone, ex alunno che commercia in fiori finti e scrive gialli, tra i quali uno breve ambientato nella sua ex scuola.

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La giornata è cominciata con una tavola rotonda cui ha partecipato anche l’assessore alla Sicurezza Marco Granelli, ex omeride.

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Tra ricordi e rievocazioni di generazioni di studenti (anche intere famiglie) si sono imposti il plauso e l’augurio di un futuro sempre più ricco per il liceo classico, palestra indispensabile per il pensiero. Ha concluso il dibattito un commossissimo Alberto Rollo, studente della prima tornata e attualmente direttore letterario della Feltrinelli.

IMG_1040Dopo la tavola rotonda I prescelti di Dioniso hanno presentato lo spettacolo Concilium deorum e poi ha preso il via l’aperitivo con la visita libera alle aule.

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Questa non è un’affermazione retorica: sabato scorso nell’aria c’era molto amore. Era evidente il piacere dello stare insieme di docenti e studenti, si respirava un profondo rispetto per i luoghi e per le persone. L’Omero è una scuola di forte sostanza ad alto tasso di felicità. D’altra parte su un tavolo dell’ingresso campeggiava un cestino pieno di minuscole pergamene da distribuire agli ospiti, su cui Carmela Fronte, professoressa di greco stimatissima, aveva scritto tra l’altro:

“C’è un luogo meraviglioso

dove si percorrono molti sentieri

che conducono all’Uomo.

Questo luogo si chiama scuola

va sempre sorvegliato, sempre protetto

come un fuoco nella notte

che ora divampa e dissipa il più profondo buio,

ora si acquieta e si spegne inaspettatamente.”

Può una scuola del genere estinguersi per mancanza di iscrizioni? Faccio un invito calorosissimo a chiunque abbia figli in età da ginnasio: scegliete l’Omero, e ci rivediamo alla prossima festa.

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 Tutte le immagini © Adolescentina


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cose per chi vuole tradurre 1

etimo♥ Se per caso abitaste nella provincia di Como e Varese, per voi Agone Greco e Certamen latino

http://www3.varesenews.it/lombardia/gara-di-traduzione-scendono-in-campo-latinisti-e-grecisti-307169.html

♥ Se per caso foste di Lucca e voleste ascoltare Ilide Carmignani ai Venerdì letterari

http://www.lagazzettadilucca.it/piana/2015/02/ilide-carmignani-ospite-della-rassegna-i-venerdi-letterari/

♥ Se per caso cercaste un traduttore editoriale, c’è il database di BooksinItaly

http://www.illibraio.it/con-booksinitaly-il-database-dei-traduttori-di-libri-180043/


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cose per chi vuole scrivere 1 (isole comprese)

venus Master di scrittura seriale di fiction, promosso da Rai Fiction e dal Centro Italiano di Studi Superiori per la Formazione e l’Aggiornamento in Giornalismo Radiotelevisivo, dall’11 maggio al 30 settembre 2015.

http://www.primaonline.it/2015/02/17/198335/rai-lancia-il-master-di-scrittura-seriale-di-fiction-verranno-selezionati-15-sceneggiatori-under-35/

 “Contaminazioni: i luoghi e il cibo”, concorso di scrittura ad Alessandria a cura di liberArti

http://www.alessandrianews.it/cultura-spettacolo/contaminazioni-concorso-scrittura-sui-luoghi-cibo-82418.html

 Corso di scrittura creativa a Sarzana, organizzato da Officina Kant

http://www.cittadellaspezia.com/Sarzana/Sarzana-Val-di-Magra/Al-via-il-corso-di-scrittura-creativa-176815.aspx

 Corso di scrittura creativa a Porto San Giorgio, con le signore della European Writing Women Association

Porto San Giorgio – Corso scrittura creativa con le professioniste dell’EWWA

 Corso di scrittura creativa all’isola d’Elba

http://www.quinewselba.it/corso-intensivo-di-scrittura-creativa-presso-la-s.htm

 Corso di scrittura creativa a Milano, da GeMS

Come partecipare al corso di scrittura in casa editrice

 


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Concorso di scrittura WriteWear e una nota sul “giornalismo” online

ad9d44_a442adf800b3419cbb606d30910f0b3d.png_srz_p_373_400_75_22_0.50_1.20_0Sulla versione online di “Vanity Fair” si annuncia il concorso di scrittura WriteWear, dedicato all’olfatto e al profumo, in collaborazione con Parfums d’Orsay. Dal 6 febbraio al 10 marzo si potrà inviare un testo di 1300 battute a una giuria che ne selezionerà due e, in caso di vincita, inonderà i laureati di viaggi e profumi.

L’articoletto su “Vanity Fair” è di Laura Scafati, che scrive, tra l’altro, così: “Ecco perché, per la prima volta, il concorso di scrittura WriteWear si snoda sull’onda dell’olfatto, avviando un’importante collaborazione con Parfums d’Orsay, un nome della profumeria francese che affascina ancora oggi per la storia d’amore che vanta alle sue spalle. Quella della bella Marguerite a cui il nobile Alfred d’Orsay, soprannominato “l’archange du dandysme” (l’Arcangelo del Dandismo) per via del suo gusto eccellente e del suo occhio per i dettagli le dedicò un profumo.”

Signori, sono tre righe di publiredazionale: Laura, perché non hai riletto? Sei pure di Firenze, come recita la tua biografia. Revisore, caporedattore, dove siete?

 


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“Un’energia strepitosa della coscienza”: Mario De Santis, l’intellettuale caldo

Mario De Santis al bar di San Telmo, Buenos Aires

Mario De Santis al bar di San Telmo, Buenos Aires.

È caldo, easygoing, disponibile: non è il ritratto di un pornodivo ma quello di Mario De Santis, poeta e giornalista radiofonico, knowledge disseminator dalle frequenze di Radio Capital, infaticabile promotore di cultura. Mario non si risparmia: nel corso della sua conversazione con la signora “cose da libri” ha parlato per una ventina di cartelle da duemila battute.

Abbiamo ragionato sull’opportunità di pubblicare sul blog un testo così lungo, chiedendoci se avremmo dovuto fidarci della soglia di attenzione dei lettori degli anni Duemila, concludendo che sì, e che questa operazione sarebbe stata denominata con il titolo, assai suggestivo, Fidarsi della soglia.

Il conduttore di Soul Food ci parla della sua idea di poesia e di diffusione della lettura, di recensioni, di social network e della nostalgia per la concentrazione pre-Facebook.

Oltrepassiamo la soglia, fidiamoci, ascoltiamo.

Courtesy planetbarberella.blogspot.comSei autore e conduttore radiofonico, scrittore, recensore: sintetizzando in una orrenda espressione sei un “operatore culturale”. Quale è il tuo personale progetto, come intendi questa funzione negli ambiti in cui sei presente? A chi ti rivolgi e cosa ti prefiggi?

Radio, scrittura, recensioni sono cose diverse, per cui immaginare un progetto unico è un po’ complesso. Tralasciando una parte del lavoro radiofonico in cui faccio giornalismo e comunicazione nella forma del talk show, con Soul Food propongo libri con la formula dell’intervista, mentre in rete, nel blog o su Facebook scrivo recensioni, in cui mi permetto il lusso di fregarmene del “riquadrino”, del “boxino” a cui sarei costretto se scrivessi in un giornale (il boxino è l’ultima follia dei media di carta, che ormai franano sotto questa coltre di coriandoli inutili, e la cultura è la prima a pagarne il prezzo, salvo baronali eccezioni in qualche riserva indiana di potentati dei grandi quotidiani.
Invece come scrittore sono essenzialmente poeta, e quindi penso realisticamente in partenza di fare un’operazione al contrario, su un pubblico molto più ristretto, minimal, in un ambito ormai di “ricerca” anche per chi legge; vale a dire mi rivolgo a quel pubblico che è in grado di interpretare anche secondo canoni letterari (perché ha fatto un percorso di lettura di testi) la poesia, almeno che proviene da una tradizione del Novecento e che ha al centro la lirica, quella in cui è il linguaggio stesso ad avere un senso, la sua forma. Stiamo quindi parlando di un tipo di esercizio alla lettura che spesso anche certi universitari delle nuove generazioni non fanno più.
Però “ricerca” non vuol dire per me collocare la poesia in un alveo metareferenziale, legato alla tradizione formalista o sperimentale. Qui forse cerco di intravedere una saldatura tra le tre cose; la mia scelta poetica prende le mosse da un dato, lo dico molto semplicemente: la comprensibilità. Ovvero orientare una riconoscibilità della lingua utilizzata, dialogare con una tradizione acquisita per innovare, per modificare quella stessa, una poesia che sia in grado insomma di essere scarto dalla norma, ma proprio per questo non attingere a polifonie di linguaggi, né a mimesi di magma psichico né a riferimenti, a saperi, a filosofia, psicologia, linguistica. Ricordo una frase di Roland Barthes che diceva più o meno “Esiste una morale della forma”. Ovvero una responsabilità verso la comunità nella quale si vuole collocare il testo. E un piacere del medesimo testo, aggiungo io, che resta fondamentale pur nello scartare la norma. Continua a leggere


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Si corra in libreria con nove euro in tasca

9788845274480[…] la logica del profitto mina alle basi quelle istituzioni (scuole, università, centri di ricerca, laboratori, musei, biblioteche, archivi) e quelle discipline (umanistiche e scientifiche) il cui valore dovrebbe coincidere con il sapere in sé, indipendentemente dalla capacità di produrre guadagni immediati o benefici pratici.

[…]

“La cultura, come l’amore”, osserva giustamente Rob Riemen, “non ha il potere di costringere. Non offre garanzie. Ciò nonostante, l’unica possibilità di conquistare e difendere la nostra dignità di uomini ce la offrono proprio la cultura e un’educazione libera.” Ecco perché credo che, in ogni caso, sia meglio continuare a batterci pensando che i classici e l’insegnamento, che la coltivazione del superfluo e di ciò che non produce profitto, possano comunque aiutarci a resistere, a tenere accesa la speranza, a intravedere quel raggio di luce che ci permetta di percorrere un cammino dignitoso.

Bompiani ha appena meritoriamente pubblicato L’inutilità dell’inutile – Manifesto, di Nuccio Ordine, professore di letteratura italiana all’Università della Calabria. Il volume è diviso in tre parti: L’utile inutilità della letteratura, con esempi da Foster Wallace, Shakespeare, Leopardi, Montaigne; L’università-azienda e gli studenti-clienti; Possedere uccide: dignitas hominis, amore, verità.

Sono duecentosessanta pagine che si divorano e fanno venire voglia di ridivorarle: come recita la fascetta, “Un libro da leggere e rileggere, senza moderazione”. L’autore di quest’ultima frase è peraltro un lettore, che l’ha scritta sul sito di Amazon Francia, ed è cosa molto buona che, per una volta, non sia di Daria Bignardi.

A parte il contenuto, una delle cose che di questo libro mi fanno impazzire è il formato: 16,5 x 10 centimetri, tascabile davvero, compatto, una gioia da portarsi appresso. E poi costa nove euro. E poi, last but not least, Nuccio Ordine è proprio un bel fioeu.

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L’autore Nuccio Ordine. Courtesy calabriaonweb.it


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cari esordienti: le condivisibili cose che dice matteo b bianchi a proposito di alcuni di voi

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courtesy macchinadeisogni.org

qui trovate il post di matteo b bianchi sull’atteggiamento passivo, talora arrogante, degli aspiranti esordienti non leggenti e non impegnantisi. non ho nulla da aggiungere, se non “yo, matt”.


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Faccine, o della nostra sinistra vita emotiva

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Riporto qui sotto alcune condivisibili considerazioni della traduttrice Isabella Blum che, nell’ambito di un discorso più ampio sulla punteggiatura, così scrive a proposito della comunicazione sui social network.

Nella nostra discussione sui segni di punteggiatura più problematici, sono rimasti per ora esclusi tre segni: più “semplici”, ma sui quali vale comunque la pena di spendere qualche parola. I puntini di sospensione; il punto interrogativo; il punto esclamativo.

Si tratta di segni di punteggiatura che possono caricarsi di una valenza emotiva e che vengono utilizzati con una funzione quasi-emoticon. In questi casi, molto spesso sono utilizzati in modo incontinente (treni di puntini di sospensione, o di punti esclamativi/interrogativi, o addirittura di entrambi – ogni frase si conclude con questi segni, mai un punto fermo che non ammicchi).

Questa tendenza – soprattutto quando l’unico modo in cui una persona comunica è con la scrittura di sms, post su FB e simili – ha un versante sinistro: ogni volta che lo scrivente deve esprimere un sentimento, non lo fa a parole, ma cliccando sull’emoticon adatta a descriverlo (per inciso, a volte, nella corrispondenza e-mail privata, lo farei volentieri anch’io, ma non mi riesce di trovare l’emoticon “giusta”, e ci rinuncio…).

Chi scrive non dice “Sono furioso, così furioso che ammazzerei qualcuno … quel vecchio stupido imbroglione. / Mi sento mortificato, umiliato, sono proprio a terra. / Scoppio di gioia – una gioia profonda che mi viene da ogni fibra del corpo. Canterei – se non fossi stonato. /Sono perplesso, sconcertato: non so proprio cosa pensare, il comportamento di X mi ha preso alla sprovvista./ Eccetera”. Semplicemente, costui clicca su una faccina… Non è che alla fine gli mancheranno le parole per esprimere i suoi stati emotivi?

Abbiamo visto che la scrittura è una capacità che va insegnata, studiata, ponderata, esercitata; se ci abituiamo a queste scorciatoie fin da bambini, non è che poi ci ritroviamo un po’ analfabeti?

Guardate che non è un problema banalmente linguistico. Per scrivere quello che provo, ho bisogno di analizzare i miei stati d’animo e di trovare, nella tavolozza delle parole, la coloritura giusta, la sfumatura che mi descrive. Questo implica un’autoanalisi. E se sto descrivendo qualcun altro, implica empatia. Intelligenza inter- e intra-personale. Il colpo d’occhio necessario a scegliere l’emoticon bypassa tutto questo lavoro intelligente. Contribuisce a renderci emotivamente analfabeti.

Isabella Blum è una traduttrice professionista e docente: qui il suo ponderoso curriculum.

“Cose da libri” è molto felice di ospitare il brano qui sopra, poiché Isabella, abituata da lunga pezza a navigare da una lingua all’altra, da una trasposizione all’altra, ha il raro dono di un’estrema chiarezza di scrittura, una caratteristica che questo blog, i lettori lo sanno, apprezza in sommo grado.

Isabella Blum ha molto da insegnare e lo insegna benissimo: insegna a tradurre e insegna a scrivere, con molta grazia e grande rigore. Non la trovate nel mainstream di corsi e scuole di scrittura creativa con i soliti noti, anche se sarebbe bene che di alcuni ci liberasse con la forza della sua competenza: lei organizza dense lezioni sul web, efficientissimamente organizzate, di quelle lezioni che quando hai finito “vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”, lezioni di cui rivelare l’esistenza ad aspiranti autori, ad autori in cerca di un po’ di fresco, ad aspiranti traduttori e a traduttori navigati che vogliono continuare il loro viaggio.

Isabella, la parola, la squadra da ogni lato.

http://www.isabellablum.it


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Nannies e badanti per ogni signora: bandire ogni senso di colpa, please

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L’idea che le migranti, scegliendo di partire, abdichino al loro ruolo di madri  si basa così su una concezione limitata e povera delle relazioni di cura del ruolo genitoriale delle donne; una concezione che è esclusivamente concentrata sulle relazioni di accudimento quotidiano, dimenticando le altre funzioni fondamentali assolte da una madre, e prima di tutte dare sicurezza e risorse ai propri figli. Inoltre, questa immagine impoverita della cura si fonda su uno stereotipo particolarmente offensivo per le donne migranti: la cura che queste madri non danno ai propri figli, e che viene rappresentata come la relazione essenziale che ci si aspetta da loro e che esse sono in grado di fornire, è l’accudimento dei bisogni primari e corporei. Questa è un’immagine della cura femminile che rinsalda l’idea della donna come “natura”. Si ripete ancora la stessa forma di miopia già applicata alle donne occidentali, quando si afferma che esse si “fanno sostituire” nella cura di figli e anziani, sottintendendo che la cura vera, quella che conta e che solo le donne possono dare, è fatta esclusivamente dalle mansioni di accudimento e soddisfazione dei bisogni del corpo, o dalle rassicurazioni affettive che passano per lo scambio intimo e la relazione fisica. Questa attribuzione è tanto più grave quando si accompagna allo stereotipo primitivista che assume che le donne che immigrano da paesi altri siano particolarmente adatte a questa forma di cura, o sappiano dare solo quella ai propri figli, per cui la loro assenza fisica produce ipso facto la loro assenza in quanto figure materne.

Questa riduzione della cura a mera corporeità e presenza fisica serve ad alimentare i nostri sensi di colpa e di inadeguatezza: noi, ci viene rimproverato, non siamo più capaci a offrire queste forme di intimità non mediata, né vogliamo più farlo, perché siamo invischiate nella logica maschile del lavoro extradomestico che ci allontana dalla nostra fisicità e dalla dimensioni basilari della cura. Loro, le straniere, per colpa del nostro egoismo non possono più dare ai propri figli quello che più conta nelle relazioni con la madre, ossia esattamente questa intimità non mediata dall’accudimento quotidiano. Il prezzo che si paga per formulare queste accuse è la costruzione di una caricatura mortificante del ruolo genitoriale delle madri e della stessa relazione di cura in cui esse sono coinvolte, e una rappresentazione insensata e offensiva delle donne straniere come mero corpo o natura, secondo la più squisita tradizione del razzismo ottocentesco.

Valeria Ottonelli, Le badanti: tutta colpa nostra, in La libertà delle donne – Contro il femminismo moralista, il melangolo, Genova 2011, pp. 85-86.