la gelateria clover, in zona bande nere, è anche una caffetteria, e fa un latte macchiato con i fiocchi. l’interno ospita tre minuscoli tavolini – immacolati, come tutto in questo locale –, in attesa dell’estate, quando torneranno ad animarsi i posti all’esterno. il personale e la proprietaria ricevono i clienti con squisita cortesia.
la gelateria clover, a sinistra dell’ingresso, ha una minuscola stazione di bookcrossing. il primo libro sulla destra, quando al clover è entrata mrs. cosedalibri, era il baco da seta, di robert galbraith, prodotto in condizione di bonaccia, dopo la travolgente tempesta di harry potter, da j.k. rowling sotto pseudonimo. esito superbo della calma, però, da cui è stata tratta strike, una piccola, preziosa serie tv che prende il nome dall’investigatore protagonista ed è prodotta dalla bbc.
al clover si scrive benissimo: puoi fermarti con il tuo taccuino (o il tuo libro – portato da casa o scelto tra quelli che aspettano sul termosifone) ed essere certo che nessuno ti disturberà.
al clover si può anche fare merenda, e qui il letterato trova crêpes per i suoi denti: perché le crêpes del clover si chiamano
la visita a questa gelateria, che sprizza bonomia pur proponendo anche specialità vegane – non si adontino i seguaci del veganesimo: alcuni tra loro cercano di fare proselitismo instillando sensi di colpa nel prossimo, un atteggiamento assai fastidioso – è stato un piccolo dono in una fredda giornata di sole, in cui chi scrive disperava di trovare un luogo accogliente in una zona che proprio accogliente non è. grazie, signore clover*, ci rivedremo senz’altro.
loredana laurenti accanto al mini bookcrossing di clover
*le signore clover sono loredana laurenti e ilaria angelillo, madre e figlia. fanno in casa molte delle delizie che propongono, e ilaria è copywriter di sé stessa. i titoli dei prodotti sono suoi: tra i molti segnalo gli ammutinati, dolcetti al cocco e cioccolato il cui nome fa ironica concorrenza alla celebre barretta industriale.
questo post è stato scritto su un taccuino clairefontaine papier vélin velouté 90g/m2 fabriqué en france par clairefontaine, con una stilografica caran d’ache collezione chromatics che montava una cartuccia montblanc burgundy red.
Ciò detto fu preparata la cena e in più del consueto furono arrostiti sedici buoi, tre manze, trentadue vitelli, sessantatré caprioli lattonzoli, novantacinque pecore, trecento porcellini di latte con salsa di mosto, duecento e venti pernici, settecento beccacce, quattrocento capponi del Ludunese e della Cornovaglia, seimila pollastri e altrettanti piccioni, seicento gallinelle, mille e quattrocento leprotti, trecento e tre ottarde e millesettecento capponcelli.
Non molta cacciagione si poté procurare così all’improvviso; non v’erano che undici cinghiali inviati dall’abate di Turpenay e diciotto fra daini, cervi e caprioli regalati dal signore di Granmont, più venti fagiani mandati dal signore di Essars e qualche dozzina di colombacci, d’uccelli acquatici, di arzavole, tarabusi, chiurli, pivieri, francolini, oche selvatiche, pizzacheretti, vannelli, palettoni, pavoncelle, aironetti, folaghe, tadorne, gazze, cicogne, oche granaiuole, fiammanti (cioè fenicotteri) terragnoli, dindi, gran quantità di gnocchetti e rinforzo di minestre.
François Rabelais, Gargantua e Pantagruele, in ebook scaricabile a questo indirizzo
a milano chiudono piccoli negozi di abbigliamento, mercerie, esercizi storici.
ogni centimetro quadro viene fagocitato dalla piovra food. bar e altri luoghi anche minuscoli sfruttano qualunque infimo spazio per piazzare un tavolino, una sedia, un pouf, attrattori di avventori. è l’immagine di una città dedita sempre più largamente al cibo, alla convivialità, al fuori. fuori ci sono il panino, la frittura, il cocktail. l’apericena, il precena, il dopocena. cibo italiano – indispensabile, per parlarne, l’uso del termine “eccellenza”. una parola che, vivo flaubert, sarebbe finita immediatamente nel suo sciocchezzaio –, cibo forestiero – la cina è in declino, il giappone va ancora (risultato: legioni di mangianti che aderiscono alla malìa dell’“all you can eat”, orde di persone in preda a una cacarella permanente, con tutto quel sushi), la corea emerge. cibo di strada. posti piccoli, posti grandi, apecar con specialità regionali. la nostra civiltà è in piena fase orale.
Paul Gauguin, La vision du sermon, la lutte de Jacob avec l’Ange, 1888. Courtesy italiq-expos.com
Abbiamo inaugurato l’estate con Gavino Angius, in Sardegna. Poi l’estate è diventata molto variabile, pertanto si rivela opportuno mettere in valigia o sul comodino il giallo di PiemmeNatura morta in riva al mare, dell’esordiente (sotto pseudonimo) Jean-Luc Bannalec, ambientato a Concarneau, nel Finistère, luogo dove il tempo variabile è la norma. Tre centinaia di pagine all’aroma di Atlantico, di caffè e di petits pains.
Concarneau, Bretagna. Courtesy infrancia.org
La vicenda è presto detta: il facoltoso albergatore novantunenne Pierre-Louis Pennec – proprietario del leggendario hotel Central di Pont-Aven, dimora nel passato di artisti come Paul Gauguin –, appreso di dover morire a breve, chiede al proprio notaio una modifica del testamento, ma prima che l’incontro possa avvenire viene assassinato. Il commissario Georges (senz’altro Simenon: d’altra parte a Concarneau il grande belga ambienta sia Il cane giallo sia Le signorine di Concarneau) Dupin (senz’altro Auguste), piuttosto insofferente a regole e gerarchie, da Parigi (di cui ha offeso il sindaco) viene trasferito a Concarneau, piccolo centro bretone a una decina di chilometri da Pont-Aven, sede della celebre scuola che si formò al seguito di Gauguin.
Dupin, poliziotto bisognoso di molti caffè e dell’aiuto costante di un taccuino per supplire a una memoria non sempre benigna – i taccuini del commissario sono quadernetti Clairefontaine, su cui scrive con penne Bic: una scelta di cancelleria, a parere di chi scrive, ineccepibile –, lavora, parigino tra bretoni non sempre fiduciosi e collaborativi, alla soluzione del caso Pennec. Di indole riflessiva, ha spesso bisogno di raccogliersi in solitudine e propizia questi momenti lasciando nel cellulare lunghe scie di chiamate inevase. Gli hanno assegnato un appartamento con balconcino sul mare, dal quale si vede la Roccia di Flaubert: “Si diceva che Flaubert stesse sempre seduto lì quando era a Concarneau”, p. 95. “Comme j’ai besoin de sortir du milieu où j’agonise, dès le commencement de septembre, je m’en irai à Concarneau, près de Georges Pouchet, qui travaille là-bas les poissons. J’y resterai le plus longtemps possible.”: così Flaubert in una lettera a Zola del 13 agosto 1875.
Aggiunge un tocco pop alla personalità del nostro commissario un vezzo che pare proprio mutuato da quello del Tenente Colombo (peraltro anch’egli utilizzatore di malandati taccuini): Dupin tende infatti a congedare coloro che ha interrogato, salvo poi porre loro un’ultima domanda quando quelli, sollevati, stanno già infilando la porta.
L’albergo al centro dell’indagine, “alle cui pareti bianche erano appese, come dappertutto a Pont-Aven, le immancabili copie dei dipinti della colonia di artisti di fine Ottocento” (p. 18), ha un impianto di condizionamento eccessivamente professionale ed efficiente. Questa riflessione del commissario Dupin darà la stura a una serie di verifiche che coinvolgeranno una nota storica dell’arte di Brest e il direttore del Musée d’Orsay, chiamati a coadiuvare il parigino mentre cerca di districarsi tra figli frustrati, nuore meno innocue di quanto appaiano, ambiziosi professori di provincia e un luminosissimo color arancione.
L’indagine attorno all’omicidio, pur complessa, coinvolgente e serrata (durerà in tutto quattro giorni), non sta da sola al centro del racconto. Le acque – mare, fiume e pioggia –, il vento dell’Atlantico, la vegetazione, i repentini mutamenti atmosferici, in una parola la vincolante natura della Bretagna, sono sostanziosi comprimari nello svolgersi della vicenda e riflettono chiaramente l’amore dell’autore per quella terra. Il tutto intessuto nelle giornate e nei ritmi corporali del commissario Dupin, capace di lavorare senza pensare a nient’altro e di avvertire improvvisamente una fame irresistibile, che soddisfa con portate di cucina bretone, da lui molto amata, le quali letteralmente escono dalla pagina per offrirsi al lettore: e se da una parte la bulimia caffeinica di Dupin è tutta balzachiana – “Aveva sempre bisogno di tanti, tantissimi caffè … Senza una massiccia dose di caffeina il suo cervello non funzionava; di ciò era fermamente convinto”, p. 39 –, tutto rabelaisiano è l’elenco dei cibi citati: e sono fragranti petits pains, grands crèmes, sandwich jambon-fromage, crêpes complètes, entrecôtes innaffiate da Languedoc “pastoso, vellutato e morbido”, frutti di mare, grassi pesci, Sancerre, litri di acqua Badoit, burro, gâteau breton, patate fritte e senape.
Altro non posso svelare: però posso invitarvi a partire per la Bretagna restando a casa vostra con questo libro, assai soddisfacente per cervello, pancia e cuore (sì, anche cuore, perché a un certo punto il commissario e Marie Morgane…).
Cahier de doléances
Chi scrive ha trovato nel libro un unico refuso, un accento circonflesso superfluo sulla prima a della parola “plateau”, a p. 119. Deve però citare una ricorrenza eccessiva, a tratti ossessiva, dell’aggettivo “incredibile” e del suo avverbio “incredibilmente”, che si leggono davvero ogni poco. Non ha letto l’originale, ma ritiene che il traduttore, con la collaborazione del revisore, avrebbe potuto sforzarsi di trovare qualche alternativa.
Jean-Luc Bannalec, Natura morta in riva al mare, traduzione di Giulia Cervo, Piemme, Milano 2013, 308 pagine, 16,90 euro ben spesi