È caldo, easygoing, disponibile: non è il ritratto di un pornodivo ma quello di Mario De Santis, poeta e giornalista radiofonico, knowledge disseminator dalle frequenze di Radio Capital, infaticabile promotore di cultura. Mario non si risparmia: nel corso della sua conversazione con la signora “cose da libri” ha parlato per una ventina di cartelle da duemila battute.
Abbiamo ragionato sull’opportunità di pubblicare sul blog un testo così lungo, chiedendoci se avremmo dovuto fidarci della soglia di attenzione dei lettori degli anni Duemila, concludendo che sì, e che questa operazione sarebbe stata denominata con il titolo, assai suggestivo, Fidarsi della soglia.
Il conduttore di Soul Food ci parla della sua idea di poesia e di diffusione della lettura, di recensioni, di social network e della nostalgia per la concentrazione pre-Facebook.
Oltrepassiamo la soglia, fidiamoci, ascoltiamo.
Sei autore e conduttore radiofonico, scrittore, recensore: sintetizzando in una orrenda espressione sei un “operatore culturale”. Quale è il tuo personale progetto, come intendi questa funzione negli ambiti in cui sei presente? A chi ti rivolgi e cosa ti prefiggi?
Radio, scrittura, recensioni sono cose diverse, per cui immaginare un progetto unico è un po’ complesso. Tralasciando una parte del lavoro radiofonico in cui faccio giornalismo e comunicazione nella forma del talk show, con Soul Food propongo libri con la formula dell’intervista, mentre in rete, nel blog o su Facebook scrivo recensioni, in cui mi permetto il lusso di fregarmene del “riquadrino”, del “boxino” a cui sarei costretto se scrivessi in un giornale (il boxino è l’ultima follia dei media di carta, che ormai franano sotto questa coltre di coriandoli inutili, e la cultura è la prima a pagarne il prezzo, salvo baronali eccezioni in qualche riserva indiana di potentati dei grandi quotidiani.
Invece come scrittore sono essenzialmente poeta, e quindi penso realisticamente in partenza di fare un’operazione al contrario, su un pubblico molto più ristretto, minimal, in un ambito ormai di “ricerca” anche per chi legge; vale a dire mi rivolgo a quel pubblico che è in grado di interpretare anche secondo canoni letterari (perché ha fatto un percorso di lettura di testi) la poesia, almeno che proviene da una tradizione del Novecento e che ha al centro la lirica, quella in cui è il linguaggio stesso ad avere un senso, la sua forma. Stiamo quindi parlando di un tipo di esercizio alla lettura che spesso anche certi universitari delle nuove generazioni non fanno più.
Però “ricerca” non vuol dire per me collocare la poesia in un alveo metareferenziale, legato alla tradizione formalista o sperimentale. Qui forse cerco di intravedere una saldatura tra le tre cose; la mia scelta poetica prende le mosse da un dato, lo dico molto semplicemente: la comprensibilità. Ovvero orientare una riconoscibilità della lingua utilizzata, dialogare con una tradizione acquisita per innovare, per modificare quella stessa, una poesia che sia in grado insomma di essere scarto dalla norma, ma proprio per questo non attingere a polifonie di linguaggi, né a mimesi di magma psichico né a riferimenti, a saperi, a filosofia, psicologia, linguistica. Ricordo una frase di Roland Barthes che diceva più o meno “Esiste una morale della forma”. Ovvero una responsabilità verso la comunità nella quale si vuole collocare il testo. E un piacere del medesimo testo, aggiungo io, che resta fondamentale pur nello scartare la norma. Continua a leggere