L’idea che le migranti, scegliendo di partire, abdichino al loro ruolo di madri si basa così su una concezione limitata e povera delle relazioni di cura del ruolo genitoriale delle donne; una concezione che è esclusivamente concentrata sulle relazioni di accudimento quotidiano, dimenticando le altre funzioni fondamentali assolte da una madre, e prima di tutte dare sicurezza e risorse ai propri figli. Inoltre, questa immagine impoverita della cura si fonda su uno stereotipo particolarmente offensivo per le donne migranti: la cura che queste madri non danno ai propri figli, e che viene rappresentata come la relazione essenziale che ci si aspetta da loro e che esse sono in grado di fornire, è l’accudimento dei bisogni primari e corporei. Questa è un’immagine della cura femminile che rinsalda l’idea della donna come “natura”. Si ripete ancora la stessa forma di miopia già applicata alle donne occidentali, quando si afferma che esse si “fanno sostituire” nella cura di figli e anziani, sottintendendo che la cura vera, quella che conta e che solo le donne possono dare, è fatta esclusivamente dalle mansioni di accudimento e soddisfazione dei bisogni del corpo, o dalle rassicurazioni affettive che passano per lo scambio intimo e la relazione fisica. Questa attribuzione è tanto più grave quando si accompagna allo stereotipo primitivista che assume che le donne che immigrano da paesi altri siano particolarmente adatte a questa forma di cura, o sappiano dare solo quella ai propri figli, per cui la loro assenza fisica produce ipso facto la loro assenza in quanto figure materne.
Questa riduzione della cura a mera corporeità e presenza fisica serve ad alimentare i nostri sensi di colpa e di inadeguatezza: noi, ci viene rimproverato, non siamo più capaci a offrire queste forme di intimità non mediata, né vogliamo più farlo, perché siamo invischiate nella logica maschile del lavoro extradomestico che ci allontana dalla nostra fisicità e dalla dimensioni basilari della cura. Loro, le straniere, per colpa del nostro egoismo non possono più dare ai propri figli quello che più conta nelle relazioni con la madre, ossia esattamente questa intimità non mediata dall’accudimento quotidiano. Il prezzo che si paga per formulare queste accuse è la costruzione di una caricatura mortificante del ruolo genitoriale delle madri e della stessa relazione di cura in cui esse sono coinvolte, e una rappresentazione insensata e offensiva delle donne straniere come mero corpo o natura, secondo la più squisita tradizione del razzismo ottocentesco.
Valeria Ottonelli, Le badanti: tutta colpa nostra, in La libertà delle donne – Contro il femminismo moralista, il melangolo, Genova 2011, pp. 85-86.